GIANNI CUSUMANO - AUTORE APPESO -

martedì 27 aprile 2010

Polaroid '96


Se non eri abbastanza furbo
per spacciare
potevi sempre scroccare da bere
a un grasso rivoluzionario fallito,
con pochi soldi,
pochi amici,
ma con una casa grande abbastanza
per ripararti dai fuochi esplosivi
di un sabato sera locrese.

A sedici anni volevamo perdere.
Perdere quel tanto che bastava
da far credere agli altri
che avevi sempre avuto ragione.

C'era ben poco da fare in un posto come Locri.

Diceva di chiamarsi Carmelo,
e aveva gli occhi più tondi e gialli
di tutta la provincia.
Occhi che soffocavano nel whisky
ogni pomeriggio prima della messa delle 5.
Occhi fusi nel piombo,
che avevano perso tempo
-TROPPO TEMPO-
a dar retta ai compagni sbagliati.
Occhi con una ex moglie brasiliana strafatta di coca
che attendeva una telefonata dall'altra parte del filo,
mentre altri occhi
occhi amici,
-gli occhi di Renato:
anche lui pippato da far schifo,
un padre ucciso
e una madre che allattava fratelli e sorelle suoi per metà-,

se la sbattevano su un divano cremisi.
Il divano cremisi di Carmelo.

Che la lotta continuasse o no
non era un problema per noi,
non era un problema per Renato,
e non era di certo un problema per l'ex moglie di Carmelo
stesa culo all'aria
sul divano del marito.

Fintanto che c'era abbastanza pasta
e abbastanza sugo,
fintanto che c'era abbastanza vino
e abbastanza erba
su, nella mensola in cucina,
non era nemmeno più un problema di Carmelo
che la lotta continuasse o no.
E allora una sera ci presentammo davanti casa sua
fatti fino all'osso
e con poca voglia d'avere problemi.
Lanciammo i giubbotti su un divano,
un divano cremisi misto sperma,
e salutammo.
C'era anche Renato.
Tirava su col naso.
Lo faceva da anni.

“Com'è Renato?”
“E... com'è?!”, fece lui.

C'era una tavola imbandita
che faceva l'occhiolino dal soggiorno.
Una tavola tradita,
anche se ancora non era chiaro come.
Ci facemmo avanti,
prendemmo posto
e lasciammo che le cose ci passassero addosso.

Odore di vapore,
odore di grano
nell'aria.
Odore di gas e nicotina,
odore di aglio fritto e marijuana,
nell'aria.

E poi Carmelo
sbucò dalla cucina come un verme dal buco
e si avvicinò al tavolo
con la sua pentola più grande che bruciava,
bruciava,
bruciava la colla di pasta che avremmo avuto per cena.

Ci lanciammo sui piatti
senza dire preghiere
e qualcuno attaccò a parlare di qualcosa,
qualcosa che stava alla base della lotta proletaria.
Poi starnutii
per via del pepe sugli spaghetti,
e Carmelo s'interruppe per bere del whisky,
mentre altri versavano altro vino.
Poi Carmelo disse:
“Sapete cos'è Dio?”
“Cosa?”

“L'apostrofo tra la D e la I.”

Era bella.
Una di quelle cose che vorresti aver pensato tu, prima.
Stavamo bene.
Sì, si stava bene.
E anche Renato sembrava star bene
nonostante il rossore al naso.
Ridemmo e vuotammo i bicchieri
e Carmelo ci offrì del whisky,
-del suo whisky-.
E non eravamo tipi da tirarci indietro,
e lì dentro lo sapevano
perché adesso qualcuno s'era messo a rollare dell'erba,
-la nostra erba-,
e allora galleggiavamo,
galleggiavamo tutti,
come morti sull'acqua.

Così squillo il telefono
e Carmelo s'alzò per rispondere,
mentre noi si andava avanti
a bere e a ingoiare.
Poi tornò in cucina,
portandosi dietro un vecchio ricevitore di plastica,
di quelli moderni senza rotella.

“C'è qui la mia ex moglie al telefono”.

Noi altri sedicenni accennammo un sorriso.
Renato impallidì e basta.
Che cazzo ne sapevamo noi?

“Voglio che la conosciate, che le parliate”.

“Forse un'altra volta, Carmelo. Forse non è il caso adesso”.

“VOGLIO FARVI CONOSCERE MIA MOGLIE!”

Pregai di non essere il primo.
La pasta era finita
e non avevamo recitato nessuna preghiera.
Mandai giù un altro sorso di whisky.
“Fatti notare il meno possibile” è la regola,
e di solito funziona.
Ma non quando il lampadario della cucina
non è dalla tua parte,
lasciandoti senza un centimetro di buio
dove andare a nasconderti,
con un ex terrorista cocainomane
completamente ubriaco
che ti agita contro la cornetta del telefono,
minacciandoti di sbattertela in faccia
se adesso,
proprio ADESSO,
non ti decidi a presentarti
alla sua ex moglie brasiliana
che aspetta dall'altra parte del filo.

Raul disse “Pronto?” per primo,
e la donna dall'altra parte c'era davvero,
perché non era uno scherzo
e se lo era
era di quelli che vengono bene.
Perché quella donna disse:
“Tesoro! Ciao. Sono Estella. Come ti chiami?”

“Sono Raul. Piacere di conoscerti, Estella.”

“Senti che voce. Quanti anni hai?

L'imbarazzo di Raul disse:
“Sedici.”

“Cashpita! Sembri molto, molto più... g-r-a-n-d-e.”

Il cazzo duro di Raul rispose:
“G... Grazie”.

Andò avanti così ancora un po',
poi Carmelo disse “Basta. Basta!”
e toccò a me farmi avanti.
“Tu! Vieni a salutare mia moglie, qui...”

“Come va?”

“Dimmi come sei fatto?”

“Cosa?”

“Dimmi come sei fatto.”

“Non bene direi...”

“Dille che è una puttana!”

“Che cazzo dici Carmelo?”

“DEVI DIRLE CHE E' UNA SCHIFOSA PUTTANA!”

Non feci in tempo a dire nulla
perché la grossa mano della rivoluzione proletaria
mi strappò via il ricevitore
scagliandolo contro la carta da parati ingiallita
del soggiorno.
Poi
gli occhi della rivoluzione
si fissarono a lungo
a lungo,
a lungo,
molto più a lungo di quanto stenti a ricordare,
sulle pupille a spillo del tradimento.
Le pupille di Renato.

Raul mi versò da bere
e io guardai Raul versarmi da bere
mentre il resto,
tutto il resto,
diventava l'ennesima istantanea venuta male
di un altro sabato sera locrese.

giovedì 22 aprile 2010

Tonnellate di merda


Tonnellate di merda.

Tonnellate di merda sui cieli puliti di primavera,
voltato l'angolo per casa,
sulla faccia sporca di uno zingaro affamato
che sbuca fuori dall'immondizia.

Tonnellate di merda
al parco la domenica,
quando è troppo presto per bere
e troppo tardi per non farlo.

Tonnellate su tonnellate di merda
mentre assorbi gli ultimi avanzi di sole
col culo sulla panchina più scomoda,
e due uomini venduti a Cristo
te la fanno pagare
stendendoti la loro vecchia ombra
dritta in faccia.

Tonnellate di merda
che ti scavano nelle orecchie
come pesci carnivori fatti di lettere,
stupide parole noiose,
scogli interrogativi,
e il tuo muso ci va a finire contro
e ti chiedi:
Perché mai?

“Hai bisogno di Cristo!”
“Non ho bisogno di Cristo.”
“Lascia la catechesi del demonio e rifugiati in Cristo!”
“Pago già l'affitto di un bilocale, fratello.”
“Getta alle fiamme quella bottiglia. Pensi che bere sia giusto?”
“Se alleggerisce la croce sulle spalle fratello, perché no?”

Tonnellate di merda
nell'attesa di pagare le bollette
seduto all'ufficio postale,
respirando saliva.

Tonnellate di merda
fino a farti affogare
nella speranza fallita
di un altro giorno solitario.
Tonnellate su tonnellate di merda
mentre due sconosciuti bussano alla porta
di quella che,
fino a ieri,
era casa tua
e adesso
è soltanto un altro buco stretto
di questa stretta città.

Tonnellate di merda
sulla tua bassa pressione,
mentre cadi svenuto sul letto sporco di sangue
e in cucina
una troia polacca e la sua donna
sbucciano cipolle e stappano vino.
Il tuo vino.

Tonnellate di merda
Tonnellate di merda
e il tuo week end
è bello che fottuto.

Tonnellate di merda,
merda fumante,
merda stantia che soffoca il tuo bagno,
che ti invade le narici
e che non è la tua.

Tonnellate di merda,
merda pesante,
merda viva e pulsante,
tonnellate di merda
ti piombano addosso dal cielo
come macigni stellari
schiacciandoti all'istante,
seppellendoti per sempre,
soltanto perché
non aspettavi nessuno
questo week end.