GIANNI CUSUMANO - AUTORE APPESO -

martedì 31 agosto 2010

Un po' d'aria tiepida


Adoro la notte.

L’odore del sangue mestruale
che affoga nella pozza d’acqua
di un sordido cesso
di una squallida stamberga
grassa e arricchita
mentre aspetto
di farmi schizzare
il piscio
fuori dal cazzo
e fuori,
FUORI
un nuovo
ritrovato amore
sboccia alla luna,
e fiori di loto si spandono al cielo
riempiendo l’aria di desiderio
e tutto a un tratto
ce ne stiamo soli,
io e te,
a guardare
un ubriaco reggersi la testa fra le gambe,
miscelando
whiskey di quart’ordine a coca di marca,
e un altro ancora barcolla
chiedendo del suo futuro
e io non ho risposte
e tu mi chiedi da fumare
e io ti restituisco il fuoco
di cui vedo fatte le nuvole
ogniqualvolta mi capita di volare
e non c’è male davvero,
no,
non c’è male
per niente.

C’è la luna piena stasera
e il vento stride tra le foglie
di alberi sopravvissuti al fuoco
e la buona notizia è questa,
una
e una soltanto:
ce ne staremo da soli
a sopportare le nostre gastriti brucianti
stretti assieme
mentre le pale del ventilatore
s’affaticano
per regalarci un po’ d’aria tiepida
da farci bastare
fino a domani.

mercoledì 25 agosto 2010

Spente le luci


Spente le luci
sul campo di calcio,
di superstiti
- a quanto pare -,
non ce ne sono.
Mi guardo le dita della mano
e il pollice
e il mignolo
sono pesti di sangue.
Rappreso, sotto le unghie,
tenta di venir fuori
ma le barriere organiche
sono ben progettate.
Il DISSENSO,
nel mio caso,
è sotto controllo.

Bè,
tutto questo capita
nell’era del “remake”,
e parlo di
musica,
letteratura,
cinema,
ma soprattutto,
di poesia.
Anche questa è stata già scritta
ma almeno non tenta di usare
una vita migliore
per giustificarne
una
pessima.
QUELLO,
quello è uno scrittore che mente.
Stanne lontano.

E mentre tento
di prendere in mano il volante
per dimostrare che,
in fondo,
sono uno di cui ci si può fidare,
esattamente in quel preciso
istante
di lucida
ben accetta
serena
e tracotante
COMPRENSIONE
che la mia donna
mi fa capire
che è LEI,
nonostante il buio e le sbronze,
ad avere
il dovere
di riportare
i nostri culi
sani e salvi
a casa.

lunedì 16 agosto 2010

Ode alle parole


Scrivere è prendere in prestito
per una notte
le fiamme dell'inferno
per forgiare parole
che mai ti apparterranno.

Puttane insensibili,
le parole.

Ti stregano con gli occhi,
ti fanno sentire vivo,
ti mostrano un po' di carne
lasciandosi desiderare,
bevono il tuo vino,
fumano il tuo tabacco,
poi lentamente si spogliano
e ti stendono a letto,
ti strappano i vestiti di dosso
e pian piano
ti lasciano entrare.

Scivoli dentro di loro
come un serpente affamato,
tendendo la lingua per assaporare
ogni centimetro d'estasi,
ti abbeveri del loro sudore,
ti aggrappi ai loro sospiri,
le tieni a mente,
le fai tue,
e allora senti una mano carezzarti il cuore,
e andare ancora oltre,
oltre il cuore, in profondità,
senti una mano afferrarti l'anima
e portartela via
mentre ti sembra di toccare il cielo
con la punta del tuo cazzo
dritto e ispirato.

Poi ti si addormentano accanto,
le parole.

Puoi sentire il loro tiepido respiro
sfiorarti delicatamente il collo,
e allora anche tu chiudi gli occhi,
ti lasci andare,
annegando nella beatitudine,
sicuro che ancora
farai visita al paradiso,
ché, in fondo,
un pezzo spetta a tutti,
anche a te.

Ma il loro posto
non è accanto a te,
né accanto nessun altro.

Saltano di letto in letto,
le parole,
di bocca in bocca,
di mano in mano,
di poeta in poeta,
di nullità in nullità,
nei secoli dei secoli.

Sono le puttane
della GRANDE letteratura,
le parole.

Cavalcano con Omero,
con Virgilio,
con Dante,
senza distinzione;
succhiano l'uccello
di Petrarca,
di Catullo,
di Ovidio,
si fanno sbattere
dai romantici e dai classici,
da Shakespeare e da Baudelaire,
le parole,
scopano con Hemingway e Dostoevskij
la parole,
con Pasolini e con Kafka,
con Fante e Fitzgerald,
Kerouac e Ginsberg,
Carver e Bukowski,
a altri ancora,
e ancora,
e ancora,
e ancora.

Troie poetiche,
le parole.

Battono sui versi
dei forti e dei deboli,
dei coraggiosi e dei vigliacchi,
dei geni e dei mezzi illuminati,
degli onesti e dei furbi,
tra le righe di ognuno di loro,
tra gli spazi bianchi delle loro pagine
le parole dominano
e tendono agguati,
aspettano il prossimo passo falso
nascoste
nel bianco degli schermi
le parole
e poi,
quando ti sembra di possederle
e di stringerle in pugno
riapri la mano
e nient'altro resta di loro
che un'atroce piaga fumante.

Perciò
adesso
farò ballare un po' le dita sui tasti
per dirvi soltanto questo,
puttane senza cuore:
Fottetevi!
E fatelo alla grande!

Non sarò in casa
quando tornerete a trovarmi.

martedì 3 agosto 2010

Il disagio della solitudine


Incontro questo artista
che fa arte maneggiando filmati.

“Voglio farti vedere il mio ultimo lavoro”, mi fa.
Annuisco, in segno di resa.

Lui fa scivolare un CD dentro un computer
che comincia a gorgogliare e a tremare tutto,
il che, penso, non è proprio un buon inizio.
Poi sullo schermo appare un finestra
e delle immagini cominciano a scorrerci dentro.

Si vede una donna, sola, seduta a un tavolo.
Non fa nulla in particolare, fissa il vuoto,
accendendosi una sigaretta dopo l'altra.
Non c'è nessuno nella stanza, a parte lei
e il suo piccolo corpo chino
inghiottiti da una strana luce rossa.
Sul tavolo ci sono una bottiglia e un bicchiere
che la donna riempie e scola,
riempie e scola,
riempie e scola...

“Quello non è mica vino vero”, mi fa l'artista,
“serve solo a dare l'idea”, dice.
Annuisco ancora, in segno di resa.

La scena va avanti così
con questa donna che fuma e beve senza sosta
per 10 interminabili minuti sprecati.
E poi finisce, così com'era cominciato.
Nessuno slancio,
nessun picco,
nessuna variazione appena percettibile.

“Allora?”, mi chiese affondandomi gli occhi addosso.
“Quale sarebbe l'idea che dovrebbe dare?”, gli faccio.
“Mi sembravi uno più sveglio”, dice.
Annuisco di nuovo, poi continua:
“E' chiaro come il sole, no?
Rappresenta il
DISAGIO DELLA SOLITUDINE”.

“Il disagio della solitudine...”, mormoro.
“Ma il vino non era mica vero,eh.”

“Il DISAGIO DELLA SOLITUDINE”,
dico accendendomi una cicca.
“Lo stesso che tintinna ogni giorno
nelle buste della mia spazzatura.”