GIANNI CUSUMANO - AUTORE APPESO -

venerdì 24 settembre 2010

Una virgola da 600 euro


Strinsi anche io la cinghia
come ogni buon italiano in crisi
e presi solo un pacco di uova
e un cartone di birre in offerta
tanto per far passare un'altra serata solitaria.

Quel pomeriggio mi ero ripromesso
di darmi una calmata col bere e tutto,
erano giorni che non dormivo
e anche cacare decentemente era un'impresa.
Mi sembrava d'impazzire
ma il solo pensiero di dover sprecare una sera
potenzialmente produttiva
mi faceva stare anche peggio.

Come si dice,
finché sei in ballo e le gambe ti reggono
almeno ci provi a restare in pista.
Il tempo per rimanere distesi
sarebbe arrivato anche quello,
non so se mi spiego.

Strinsi la roba al petto
e mi avvicinai alla cassa per pagarla.
La fila, in quel supermercato,
non era mai troppo lunga.
C'erano abbastanza casse per tutti.

Il tizio davanti a me aveva anche lui poche cose
eppure la fila s'era come bloccata.
Guardai oltre le sue spalle
e c'era questo ragazzo magro
con la testa piccola e ossuta
e dei bastoni pelosi al posto delle braccia
che cercava di capire che tasto premere
per aprire lo sportello della cassa.

Era completamente impacciato,
si affaccendava su quella cassa schiacciando pulsanti a caso
cercando di capire quale arcano mistero
gli impedisse di aprirla.
Il tizio davanti cominciò a sbuffare
e a tamburellare nervosamente le dita sul nastro trasportatore.
Si vedeva che il ragazzo non aveva dimestichezza col mestiere,
si vedeva da come teneva i soldi del tizio:
stretti tra le punte di due dita,
intimidito
come uno che pizzica per la prima volta un capezzolo.

Quella scena mi fece tornare in mente
quando, esattamente un anno prima,
mi trovai anch'io in una situazione simile.
Facevo il commesso in un piccolo negozio di strumenti musicali
cosicché mi toccava stare alla cassa
quando c'era da pagarsi.
Un giorno
-sarà stato non più di una settimana da quando avevo cominciato-
mi trovo davanti al bancone un ragazzino
che doveva pagare una muta di corde per chitarra.
Il ragazzino mi porse il pacchetto
e tutto quello che dovevo fare allora
era battere la cifra sulla cassa,
6 euro,
lasciare che il carrello s'aprisse
incassare il denaro
e strappare lo scontrino.

Dico, sembrava facile.

Così spinsi prima sul tasto del 6
e quindi due volte su quello dello 0.
Mandai l'OK, la cassa s'aprì,
presi i soldi, diedi lo scontrino al ragazzo
e poi ognuno per la sua strada.
Niente di più facile, pensai.
Quando quello uscì
mi girai a controllare d'aver chiuso per bene il carrello
e per poco non collassai a terra
vedendo la cifra 600
bella illuminata sul display.
Ognuna di quelle linee verdognole impresse sullo schermo
stavano a significare che per il fisco
quel ragazzino aveva appena pagato 600 euro
per una muta di corde per chitarra,
per giunta delle più scadenti.
Avevo dimenticato di battere una virgola,
una virgola che valeva il doppio del mio stipendio.

Corsi a raccontare la faccenda ai padroni
e anche a loro
per poco non gli pigliava un colpo.
Eppure, nonostante il casino che avevo combinato,
furono comprensivi
e si limitarono a starmi attaccati al culo
per le successive due settimane.
Lavorai in quel negozio per circa tre mesi
prima di mandarli anche loro a cacare
e mai, dico MAI
riuscii ad avere un rapporto amichevole
con quella cassa del cazzo.
Questo per dire
che capivo bene come si sentisse quel povero cristo,
magari un genio della musica,
magari il prossimo messia,
ma che adesso soccombeva davanti a una cassa del cazzo
con gli occhi di mezzo supermercato puntati addosso.

Nel frattempo,
un uomo che portava lo stesso camice amaranto
si affiancò al ragazzo
istruendolo frettolosamente sulle cose da fare.
Il ragazzo indugiò ancora qualche volta sui tasti
mentre l'uomo gli batteva una mano sui fianchi
ogni volta che quello sbagliava.
Lo sentii dirgli sottovoce
“Te le taglio queste gambe, maledetto! Te le taglio!”

Finalmente quella cassa fottuta s'apri
e il tizio davanti ebbe il suo resto.
Allora posai la mia roba sul nastro
e il ragazzo premette un pedale
che lo fece scorrere verso di lui.
Il “gambizzatore” intanto gli stava ancora dietro,
controllava ogni mossa.
Passai al ragazzo la tessera che mi dava pieno diritto
allo sconto per la birra
lui la fece scivolare velocemente
sul congegno laser che leggeva i prezzi,
poi fece lo stesso con la roba,
-le uova e la birra-,
e infine mi annunciò il conto.
Gli allungai il denaro,
lui lo prese e questa volta riuscì
ad aprire la cassa senza sbagliare un colpo.
Si perse un po' col resto,
contava gli spiccioli uno per volta
come fanno i bambini coi fagioli
prima di convincersi a darmelo
ma, in definitiva,
non era andato male.
Anche il “gambizzatore” doveva essersene accorto
perché adesso le rughe sul suo viso si vedevano meno
e alla fine sembrò dargli tregua
e si allontanò
tornando a fare quello che stava facendo.

Quando finii di imbustare tutto
presi il resto e feci per uscire.
Il ragazzo mi salutò un po' in ritardo sul tempo
con un sonoro “ARRIVEDERCI”.
“Arrivederci”, dissi.

Lo lasciai lì
con gli occhi del mercato mondiale fissi su di lui,
su quella testa piccola e ossuta
su quei bastoni pelosi che aveva per braccia.
Lo lasciai lì
a combattere la sua battaglia
per diventare
la macchina di una macchina,
augurandogli affettuosamente di continuare a sbagliare.

venerdì 17 settembre 2010

Frammenti


Meglio mettersi l'anima in pace,
perché questo è quello che resta alla nostra generazione.

Poco o niente,
a parte il maltolto,
quello che non hai,
a parte i circhi cannibali in prima serata,
mentre aspetti di morire bevendo birra scura.

Poco o niente,
a parte i figli morti dell'assistenzialismo di stato
che urlano sudati sui tetti d'amianto
dei loro padroni.
Poco o niente,
se non la definitiva consacrazione alla schiavitù
pagata coi soldi di tutti.

Niente,
a parte il vestito del servo addosso al padrone
o se consideri l'affidabilità della gente
o se pensi a Dio.

Poco o niente,
a parte gli indici d'ascolto,
o il festival dell'Erezione Italiana,
a parte l'ultima bottiglia di limoncello nascosta in frigo,
o la tridimensionalità di una storia scadente in cambio di un pezzo da 10.

Poco o niente,
a parte l'informazione del non averla.

Poco o niente,
se non il brivido freddo su un vinile rigato,
e l'ultima cicca buona, soffocata nel portacenere.

Niente, se non la voglia di far niente.

Se non una cultura imparata seduto sul cesso,
a parte il disgusto e il senso d'inadeguatezza,
e la tua ombra chiusa in cella.
Poco o niente,
poco o niente,
se non l'odore di fango nell'aria,
o se pensi al lavoro.

Poco o niente, perché non c'è altro.
Poco o niente,
a parte tutto.

domenica 5 settembre 2010

Morte a pedali


All'angolo della strada
c'era un enorme arancino
a grandezza d'uomo
che sorvegliava l'ingresso di un bar.
Portava degli stivali da pescatore, dorati,
e aveva un largo sorriso stampato in faccia.

Una coppia si avvicinò al bar
e la ragazza disse
“Cristo, sembra vero!”
e il ragazzo disse
“Fermati lì, ché ti faccio una foto”.

Passai oltre il loro amore fotogenico
e mi diressi al chiosco
dall'altra parte della strada.
Ordinai una birra,
forse l'ottava quella sera,
e mi sedetti su una panchina
che dava sulle vetrine dei negozi.

Mi sembrava d'impazzire.
L'unico programma che avevo per la serata
era di farmi mettere sotto
da un'auto in corsa.
Ci provai anche,
ma ora sono qui a parlarne
quindi...

Su una di quelle vetrine c'era scritto
che le mutande erano in saldo.
La parola SALDO
risaltava al buio della notte.

Pensai di addormentarmi su quella panchina,
poi pensai di chiamare la mia ragazza
e dar fiato alla gola
ma il telefonò squillò a vuoto
e lasciai perdere.

Qualcuno spense le luci sulla strada
e allora finii la birra
e pensai davvero di fermarmi a dormire
su quella panchina,
tanto per assaggiare la vera poesia.
Ma una ragazza in bicicletta
mi passò davanti
e c'era qualcosa che non andava con l'olio della catena
perché faceva un rumore terribile,
strideva come unghie sul cielo della notte.

Allora mi alzai
gettai la bottiglia da qualche parte
e presi la strada per casa.

Poi,
chiusi le tapparelle della mia stanza
chiusi le tapparelle della cucina
e mi fermai ancora un po'
a rollarmi una sigaretta,
mentre Brahms,
la seconda della prima,
riempiva l'aria della tana.

C'era una blatta morta dietro il frigo.
L'indomani mi sarei dovuto dare da fare.