GIANNI CUSUMANO - AUTORE APPESO -

mercoledì 22 dicembre 2010

Scimmie a intermittenza



L'umanità degli uomini

è qualcosa che va e viene

a intermittenza

proprio come le luci di natale

che riempiono la strada

stasera,

occhi multicolore

che lampeggiano a festa

innalzandosi scintillando

sul più perverso e brutale

dei circhi mai esistito,

migliaia di scimmie isteriche

depilate a dovere

che battagliano tra loro

colpendosi a morte

con monete oleose,

che improvvisando danze epilettiche

consumano la loro ultima vittoria

sugli stomaci affamati

dell'intero universo,

tutte eleganti e in prima linea

si affrettano a rincorrere la benevolenza

di un dio a forma di banana

per l'ultimo, imminente avvento

in alta definizione,

e non resta nient'altro che mettersi comodi

e arrendersi

alla più lunga,

la più bestiale e insensata,

la più sporca

delle guerre

all'ultimo scontrino.


L'umanità degli uomini

è qualcosa che va e viene

a intermittenza

proprio come le luci di natale

che riempiono la strada

stasera,

mentre la mia miniera d'amore

è stesa sul letto

e il mio spirito ubriaco

s' allunga,

stanco e senza peso,

sul corpo opaco

di questa ennesima bottiglia vuota.


Lo sanno tutti

a dispetto di tutto.



lunedì 20 dicembre 2010

Per scrivere qualcosa di sensato


Un bicchiere capiente

75 cl di vino

12 grammi di trinciato inglese

Un pacco di cartine

Un accendino carico

Un ampio posacenere

Un frigorifero

6 birre

Mahler

Niente con cui scaldarsi

30 cent nel portafogli

Una personalità disturbata

Uno scarico funzionante

venerdì 17 dicembre 2010

Gomma Gialla


Faceva freddo,

un freddo cane

mentre guardavo la saracinesca abbassata

del vinaio a buon mercato

tornando verso casa

giù

per le scale di una strada di piscio

incrociando lo sguardo

di uomini assiderati

barricati sui tetti

della loro piccola fabbrica fallita,

tutti a sbalordirsi per quel grosso materasso di gomma gialla

che qualcuno

più giù

s’affrettava a gonfiare.


Faceva freddo,

un freddo cane

mentre le porte del supermercato

a buon mercato

erano sigillate

e una folla estranea

si radunava tutt’intorno

tremolante,

ignorante,

e qualcuno s’aggirava armato di cinepresa

e qualcun’altro si sfregava le mani

ringraziando Iddio nei cieli

e allora chiesi: “Che succede?”

ma era chiaro,

così chiaro

che non mi sconvolsi per una rapina finita male

ché alla fine un altro povero Cristo s’era guadagnato un pasto

al caldo del fresco

senza nulla togliere al rimpasto parlamentare.


Faceva freddo,

un freddo cane

quando le porte si riaprirono

e potei finalmente entrare

facendomi largo tra promesse di pranzi

e cene abbondanti,

tra luccichii di camere

e appartamenti andati a male,

respirando l’odore

del difetto abbiente

trovai le mie birre in offerta

risolute e solide e gelide

proprio come me l’aspettavo

e non esitai un minuto

a estrarre la mia carta fedeltà,

nemmeno di fronte

a una cassiera in lacrime.


Faceva freddo,

un freddo cane

che nemmeno l’alcol t’aiuta

figurarsi il cielo.

Figurarsi il resto.

lunedì 29 novembre 2010

Perché non siete un cazzo


Mentre c’era soltanto da avere un po’ di palle,

mentre giocavamo a fare i poeti,

mentre fingevamo d’esser vivi,

mentre non ce ne importava un cazzo

e ritiravamo le mani in tasca

nascondendoci agli occhi dei barboni,

mentre ne avevamo abbastanza

prima di addormentarci, beati,

mentre contavamo gli spiccioli

aspettando la rivoluzione,

mentre correvamo

senza avanzare d’un passo,

mentre sprecavamo fiato a pieni polmoni,

mentre scopavamo

pensando d’essere i migliori,

mentre ci sembrava di vederci chiaro,

mentre ci nascondevamo,

mentre non ce n’era per nessuno,

mentre il cesso s’allagava e le blatte avanzavano,

mentre piangevamo

e impazzivamo

e bestemmiavamo,

mentre amavamo,

mentre tutto il resto

era il resto che non c’aspettavamo,

mentre le parole non valevano un cazzo,

mentre l’acqua scorreva giù dal cesso

e davamo fiato alle trombe

annusando il puzzo di cenere,

mentre avevamo ancora abbastanza spazio nei polmoni,

mentre gli artigli degli anni

non mollavano la presa

e di bere neanche a parlarne,

mentre progettavamo tane per i vermi

senza guardare mai all’ora,

mentre facevamo questo e altro,

altro,

e altro ancora,

mentre facevamo tutto questo e altro,

altro

e altro ancora

avrei voluto vederti un’ultima volta

volare giù dal mondo

e sbatterci contro

ché, alla fin fine,

tu sei tu

e il resto

non è proprio un cazzo.

domenica 28 novembre 2010

Il coinquilino


Quando mi risvegliai,

con la gola secca per il troppo bere

e la lingua intorpidita per il troppo fumare,

eravamo ancora noi,

io e il buio,

a dividerci l’affitto.

giovedì 11 novembre 2010

Le poche parole


Eserciti in festa,

zingari in testa,

eserciti in festa.


Le dita di Mahler,

l’indiano che piscia,

la puttana che sogna,

l’alcol che sale.


Eserciti in festa,

zingari in testa,

eserciti in festa.


La lattina che suda,

il maestro che suona,

il fumo che brucia,

la città sempre uguale.


Eserciti in festa,

zingari in testa,

eserciti in festa.


La birra che schiuma,

la sera che inchioda,

la mano che trema,

la corsia che muore.


Eserciti in festa,

zingari in testa,

eserciti in festa.


Il fiato che manca,

la cicca che cura,

il violino che stride,

le poche parole.


Eserciti in festa,

zingari in testa,

eserciti in festa.

mercoledì 3 novembre 2010

Di quelli che non finiscono la birra


Quelli che non finiscono la birra

non scopano quando fanno l’amore,

non fanno Arte quando dipingono,

pisciano molto e bevono poco,

s’innamorano facilmente

e inciampano mentre camminano,

fumano solo ogni tanto

e non sanno rollare.


Quelli che non finiscono la birra

credono che non valga la pena sprecare la Vita,

pensano che ci sia ancora qualcosa per loro,

s’accontentano d’una paga da fame

e arrossiscono

se parlano al Futuro.


Quelli che non finiscono la birra

non se ne vanno a letto alle due del mattino

con in tasca una poesia scritta male,

un gran mal di testa

e solo sei uova dentro al frigo.

venerdì 29 ottobre 2010

Piene di vita


La vita è un fiume di merda
sempre in piena
di fronte al quale
le parole di uno scrittore
possono decidere
se arginarlo
oppure
lasciarsi trasportare dalla corrente
sempre più a fondo.

mercoledì 27 ottobre 2010

Prenditi il tuo tempo



Sulla busta del mio tabacco
un elefante diceva “Prenditi il tuo tempo”
così l’ho preso in parola e sono uscito
e avrei voluto fare qualche passo in più
ma non sono riuscito ad arrivare
oltre il chiosco sotto casa
e lì c’era una gran folla
ad attendere il proprio turno.

Allora mi sono fatto avanti
ridicolo
col mio gilet di lana grigio
e i pantaloni unti d’olio,
come un topo fuori dalla fogna
ho arrancato fino al bancone
stringendo la mia moneta da 2 nella mano,
cercando lo sguardo del barista
impegnato a versare crema di cioccolato
dentro un bicchiere,
mentre dietro di me
uomini
e donne
e conti bancari
scambiavano parole tra loro
e io non capivo,
- davvero non capivo - .

E una donna inglese disse qualcosa sul tempo
e un uomo italiano rispose qualcosa a proposito
- in italiano –
e lei si mise a ridere
e il barista,
nel frattempo,
lasciò che un savoiardo annegasse
giù nel bicchiere di qualcuno
e vidi la crema di cioccolato
disegnare rivoli di sangue scuro
sulle pareti di vetro del bicchiere
mentre dietro di me
si andava avanti a ridere
e a far finta di nulla,
- a far finta di nulla - ,
perché era chiaro
che tra loro
non c’era comunicazione
e io pensai che se c’è una lingua
veramente universale
è quella di una donna
sul cazzo di un uomo.

E allora il barista si sporse verso di me
e io raccolsi il fiato quanto bastava per dire
“2 birre”
e subito dopo mi sentii sfinito
vinto
combattuto
e trovai giusto la forza
di appoggiarmi al banco
e aspettare,
aspettare le mie bottiglie
e finalmente
andare,
e allora lasciai scivolare la moneta,
la moneta da 2 lungo il marmo,
e la guardai annegare in una pozza acquosa
che non era acqua
anche se,
dietro di me,
ancora si parlava del tempo
e che un temporale aveva minacciato
il lento
immobile proseguire
di un altro
ennesimo
pomeriggio siciliano.


Ma di acqua non se n’era mica vista
e questo fece ridere le donne inglesi
che invece la pioggia
la conoscevano bene
e una di loro si avvicinò al petto dell’italiano
e lesse qualcosa su una medaglia di metallo
e vide che lui
era nato in un piccolo paese del Sud
e allora tornò a mostrare i denti
denti perfetti in puro stile british
denti politicamente corretti
che si pronunciarono
in un volgare
sguaiato
Sunnydaaaaay
aperto davvero a tutti.

E allora,
solo allora
il barista tirò a sé la moneta da 2
e finalmente potei tornare a casa
a riprendere tra le mani
il mio piccolo elefante di tabacco
senza sentirmi in colpa,
non più di tanto.

mercoledì 20 ottobre 2010

All'ora del caffè



All’ora del caffè
c’è ancora troppa polvere nell’aria,
fuori da queste tapparelle sporche
il mondo se ne sta in silenzio
come in castigo,
come dopo l’apocalisse
voglia Iddio.

All’ora del caffè
nessuno ha ancora fatto qualcosa
per le dita di Django
ma a lui va bene
e continua a suonare lo stesso per me
qui
nel mio bar.

All’ora del caffè
il passato è venuto a farmi visita
e aveva l’aspetto di una scatola di cerini
con un sagittario stampato su un lato,
ho provato a sfregarli
ma non si sono accesi
e forse è stato meglio così.

All’ora del caffè
nemmeno la puttana accanto
sembra avere problemi,
suo figlio sta forse sognando qualcosa
che lassù nella capitale
una folla di operai senza pace
custodirà per lui.

All’ora del caffè
una birra è già finita
e altre due aspettano il loro turno
stese nel ghiaccio di un freezer vuoto
che non ha mai smesso di sperare,
e chi sono io
per fargli credere il contrario.
All’ora del caffè
i mercanti della fiera
hanno ancora molto da vendere
e la gente della fiera
ha ancora molto da comprare
e forse è per questo che il mondo
non è il miglior posto del mondo.

All’ora del caffè
s’è già fatto troppo tardi
per prendere un caffè,
i telefoni ricominciano a squillare
i cani ad abbaiare
le donne a partorire
e gli assassini ad ammazzare.

All’ora del caffè
per qualcuno è sempre troppo dolce
e per qualcuno sempre troppo amaro
ma non c’è molto di che preoccuparsi,
basta aspettare
e con un po’ di fortuna
anche domani ci sarà un’ora del caffè
per poter riparare.

mercoledì 6 ottobre 2010

Allacciate le cinture







"I Frigo Tales sono un viaggio raccontato in diretta da viaggiatori che non si prendono troppo sul serio, ma al viaggio ci credono. Lo ritengono assurdamente, ma anche razionalmente indispensabile, un’occasione che forse non porta a niente, ma forse porta a qualcosa e perciò vale la pena di cogliere. Ci senti dentro la strada che fugge, le soste negli autogrill, il sapore delle birre e dei panini. (...) Non sfiora nemmeno l’esibizione letteraria, ma appare come una vera cronaca, simile davvero per questo suo carattere pratico e utile, a quelle dei viaggiatori medioevali, unici testimoni nel loro tempo dei paesi lontani e meravigliosi che avevano visitato. "
Vincenzo Sparagna,
Frigidaire.

http://autoprodappese.noblogs.org/

lunedì 4 ottobre 2010

Quelli che grattano la fortuna


Quelli che grattano la fortuna
spesso si pisciano addosso,
entrano nelle tabaccherie
che la gente deve turarsi il naso
quando gli passano accanto,
non ci vedono bene
e se ne stanno tutti accovacciati sui tavoli
a grattare via la striscia d’argento
dai biglietti
con l’unico cent che gli rimane in tasca
dimenticando completamente
che ne è stato della loro vita
e perché è successo.

Quelli che grattano la fortuna
hanno una sporta della spesa
ad attenderli
timidamente
sulla strada
perché è leggera
e il suo peso,
lo sanno bene
quelli che grattano la fortuna,
non reggerebbe il confronto
con quella del tabaccaio
che invece
è uno di successo.

Quelli che grattano la fortuna
hanno solo una cosa in comune
a parte il puzzo di piscio
e una vita sprecata:
ammirano tutti
le vincite degli altri
che penzolano fotocopiate
dal bancone delle sigarette,
rallentando la fila
mentre aspetti
di comprare
il tuo maledetto tabacco
a buon mercato.

venerdì 1 ottobre 2010

Un genio come tanti


Questo di cui parlo era stato un grande scrittore
aveva pubblicato un mucchio di libri
erano stati tradotti in non so quante lingue
e perfino F. P. prima di raggiungere Hemingway e gli altri
scrisse parole entusiaste sul suo lavoro.

Questo di cui parlo era stato un grande scrittore,
“la rivelazione dei nostri tempi” aveva detto qualcuno,
uno che, grazie ai suoi libri,
aveva potuto arredare le mensole dello studio
con premi, trofei, medaglie,
e un mucchio d'altri riconoscimenti.

Questo di cui parlo era stato un grande scrittore,
che sapeva come accendere anche le parole senza vita,
che era stato battezzato alle fiamme dell'inferno
e possedeva perfino una brillante dialettica,
qualcosa in più che faceva di lui un GENIO
in confronto al resto del mondo.

Ma questo di cui parlo
che era stato un grande scrittore
e che s'era aggiunto la lettera G. di genio
a metà tra il nome e il cognome
iniziò a scrivere sempre meno
e a farsi vedere sempre di più,
specie alla televisione.

E allora?, direte voi, che c'è di male?
Era un genio, è normale che uno com'era lui
andasse a finire in qualche studio televisivo.

Io non lo so se è poi così normale.

Direte che sono uno che dimostra
più anni di quelli che ha veramente
ma penso che in TV
dovrebbero starci solo i pagliacci e le puttane
e, a meno che non debbano per forza intervistarvi
e fare di voi l'ennesimo “caso letterario del mese”,
non dovrebbe essere quello il posto
per gente che scrive.

Ma questo di cui parlo
che era stato un grande scrittore
pensò che oltre a rispondere a qualche domanda sui suoi libri
avrebbe anche potuto illuminare col suo genio anagrafico
l'oscura coltre d'ignoranza che opprimeva i palinsesti pomeridiani.
Allora aggiunsero un posto sulla poltrona
insieme agli altri opinionisti di mestiere
e ogni giorno, all'ora del caffè,
il genio diceva la sua
su questioni che riguardavano uomini e donne comuni
con problemi troppo comuni per sembrare veri.
Era anche piacevole vederlo seduto lì
mezzo ubriaco, col sigaro stretto tra i denti
che faceva la sua bella figura da genio
messo in mezzo a quelle altre facce
di plastica televisiva.
Si vedeva, insomma, che non apparteneva a quel posto.

Ma questo di cui parlo
che era stato un grande scrittore
sembrava stare sempre più comodo
seduto su quel divano.
Pensò che non era quello il momento di mandare tutto all'aria
di appiccare un bell'incendio e scappare in sella al suo leone,
specialmente adesso che il cuscino gli aveva preso la forma del culo.
Più appariva sullo schermo
meno parole bruciavano sulle pagine
e via via
col passare dei giorni,
dei mesi,
degli anni
quello che era stato l'ultimo grande genio
della letteratura contemporanea
dovette cedere il posto sulla poltrona
a qualcuno con un indice di gradimento
più alto del suo,
a un altro genio come tanti
e farsi da parte.

Smisi di sentir parlare di quest'uomo
che era stato un grande scrittore.
Non pubblicava nulla da un pezzo
e nemmeno la sua faccia si vedeva più
in giro tra i palinsesti.

Poi,
una sera che me ne stavo lungo
disteso sul letto completamente nudo
dopo aver fatto all'amore con la mia ragazza
sfinito e boccheggiante,
mentre cazzeggio col telecomando
saltando da un canale all'altro
ecco che vedo disegnarsi sullo schermo
il volto del genio in persona.
Non era cambiato molto dall'ultima volta,
solo in viso sembrava più gonfio.
Questa volta aveva una semplice sedia di legno sotto al culo
e insieme a lui, nello studio,
c'erano altri sedicenti scrittori, sceneggiatori, psichiatri, e Dio sa cos'altro.
Si parlava di una donna che aveva ucciso il figlio di pochi anni
e ognuno di quei geni, a turno, diceva la sua a riguardo.
C'era anche una poetessa
che disse d'essersi dovuta chiudere in bagno
una volta
per non soffocare il suo piccolo in fasce
che non la smetteva di strillare.

Comunque sia
alla fine del programma
la presentatrice annunciò la prossima storia
che il genio in persona aveva scritto
appositamente per il tema della serata.
Lui stesso disse qualcosa,
definendolo come
“un racconto basato sulla DICOTOMIA grasso/magro”.
Rise di gusto
prima di aggiungere che
“questo faceva di lui un genio della narrativa contemporanea”.

Mi schiacciai una zanzara sul braccio
e rimasi in attesa del capolavoro.

Allora
una donna cominciò a recitare la storia
su quello che sembrava essere un cartone animato
disegnato apposta per il racconto.
C'era una ragazza troppo magra
che aveva sposato un uomo troppo grasso
e, dopo innumerevoli tentativi,
finalmente lei aveva dato alla luce un bambino
che però era nato con una qualche forma di ritardo
spingendo così la madre della ragazza
a soffocarlo con un cuscino.
Si chiamava “Mamma Mia!”
e il tutto sarà durato non più di 2 minuti.

Spensi la TV e mi avvinghiai al corpo sudato della mia ragazza.

Al buio di quella notte calda,
ringraziai di non essere un genio.

venerdì 24 settembre 2010

Una virgola da 600 euro


Strinsi anche io la cinghia
come ogni buon italiano in crisi
e presi solo un pacco di uova
e un cartone di birre in offerta
tanto per far passare un'altra serata solitaria.

Quel pomeriggio mi ero ripromesso
di darmi una calmata col bere e tutto,
erano giorni che non dormivo
e anche cacare decentemente era un'impresa.
Mi sembrava d'impazzire
ma il solo pensiero di dover sprecare una sera
potenzialmente produttiva
mi faceva stare anche peggio.

Come si dice,
finché sei in ballo e le gambe ti reggono
almeno ci provi a restare in pista.
Il tempo per rimanere distesi
sarebbe arrivato anche quello,
non so se mi spiego.

Strinsi la roba al petto
e mi avvicinai alla cassa per pagarla.
La fila, in quel supermercato,
non era mai troppo lunga.
C'erano abbastanza casse per tutti.

Il tizio davanti a me aveva anche lui poche cose
eppure la fila s'era come bloccata.
Guardai oltre le sue spalle
e c'era questo ragazzo magro
con la testa piccola e ossuta
e dei bastoni pelosi al posto delle braccia
che cercava di capire che tasto premere
per aprire lo sportello della cassa.

Era completamente impacciato,
si affaccendava su quella cassa schiacciando pulsanti a caso
cercando di capire quale arcano mistero
gli impedisse di aprirla.
Il tizio davanti cominciò a sbuffare
e a tamburellare nervosamente le dita sul nastro trasportatore.
Si vedeva che il ragazzo non aveva dimestichezza col mestiere,
si vedeva da come teneva i soldi del tizio:
stretti tra le punte di due dita,
intimidito
come uno che pizzica per la prima volta un capezzolo.

Quella scena mi fece tornare in mente
quando, esattamente un anno prima,
mi trovai anch'io in una situazione simile.
Facevo il commesso in un piccolo negozio di strumenti musicali
cosicché mi toccava stare alla cassa
quando c'era da pagarsi.
Un giorno
-sarà stato non più di una settimana da quando avevo cominciato-
mi trovo davanti al bancone un ragazzino
che doveva pagare una muta di corde per chitarra.
Il ragazzino mi porse il pacchetto
e tutto quello che dovevo fare allora
era battere la cifra sulla cassa,
6 euro,
lasciare che il carrello s'aprisse
incassare il denaro
e strappare lo scontrino.

Dico, sembrava facile.

Così spinsi prima sul tasto del 6
e quindi due volte su quello dello 0.
Mandai l'OK, la cassa s'aprì,
presi i soldi, diedi lo scontrino al ragazzo
e poi ognuno per la sua strada.
Niente di più facile, pensai.
Quando quello uscì
mi girai a controllare d'aver chiuso per bene il carrello
e per poco non collassai a terra
vedendo la cifra 600
bella illuminata sul display.
Ognuna di quelle linee verdognole impresse sullo schermo
stavano a significare che per il fisco
quel ragazzino aveva appena pagato 600 euro
per una muta di corde per chitarra,
per giunta delle più scadenti.
Avevo dimenticato di battere una virgola,
una virgola che valeva il doppio del mio stipendio.

Corsi a raccontare la faccenda ai padroni
e anche a loro
per poco non gli pigliava un colpo.
Eppure, nonostante il casino che avevo combinato,
furono comprensivi
e si limitarono a starmi attaccati al culo
per le successive due settimane.
Lavorai in quel negozio per circa tre mesi
prima di mandarli anche loro a cacare
e mai, dico MAI
riuscii ad avere un rapporto amichevole
con quella cassa del cazzo.
Questo per dire
che capivo bene come si sentisse quel povero cristo,
magari un genio della musica,
magari il prossimo messia,
ma che adesso soccombeva davanti a una cassa del cazzo
con gli occhi di mezzo supermercato puntati addosso.

Nel frattempo,
un uomo che portava lo stesso camice amaranto
si affiancò al ragazzo
istruendolo frettolosamente sulle cose da fare.
Il ragazzo indugiò ancora qualche volta sui tasti
mentre l'uomo gli batteva una mano sui fianchi
ogni volta che quello sbagliava.
Lo sentii dirgli sottovoce
“Te le taglio queste gambe, maledetto! Te le taglio!”

Finalmente quella cassa fottuta s'apri
e il tizio davanti ebbe il suo resto.
Allora posai la mia roba sul nastro
e il ragazzo premette un pedale
che lo fece scorrere verso di lui.
Il “gambizzatore” intanto gli stava ancora dietro,
controllava ogni mossa.
Passai al ragazzo la tessera che mi dava pieno diritto
allo sconto per la birra
lui la fece scivolare velocemente
sul congegno laser che leggeva i prezzi,
poi fece lo stesso con la roba,
-le uova e la birra-,
e infine mi annunciò il conto.
Gli allungai il denaro,
lui lo prese e questa volta riuscì
ad aprire la cassa senza sbagliare un colpo.
Si perse un po' col resto,
contava gli spiccioli uno per volta
come fanno i bambini coi fagioli
prima di convincersi a darmelo
ma, in definitiva,
non era andato male.
Anche il “gambizzatore” doveva essersene accorto
perché adesso le rughe sul suo viso si vedevano meno
e alla fine sembrò dargli tregua
e si allontanò
tornando a fare quello che stava facendo.

Quando finii di imbustare tutto
presi il resto e feci per uscire.
Il ragazzo mi salutò un po' in ritardo sul tempo
con un sonoro “ARRIVEDERCI”.
“Arrivederci”, dissi.

Lo lasciai lì
con gli occhi del mercato mondiale fissi su di lui,
su quella testa piccola e ossuta
su quei bastoni pelosi che aveva per braccia.
Lo lasciai lì
a combattere la sua battaglia
per diventare
la macchina di una macchina,
augurandogli affettuosamente di continuare a sbagliare.

venerdì 17 settembre 2010

Frammenti


Meglio mettersi l'anima in pace,
perché questo è quello che resta alla nostra generazione.

Poco o niente,
a parte il maltolto,
quello che non hai,
a parte i circhi cannibali in prima serata,
mentre aspetti di morire bevendo birra scura.

Poco o niente,
a parte i figli morti dell'assistenzialismo di stato
che urlano sudati sui tetti d'amianto
dei loro padroni.
Poco o niente,
se non la definitiva consacrazione alla schiavitù
pagata coi soldi di tutti.

Niente,
a parte il vestito del servo addosso al padrone
o se consideri l'affidabilità della gente
o se pensi a Dio.

Poco o niente,
a parte gli indici d'ascolto,
o il festival dell'Erezione Italiana,
a parte l'ultima bottiglia di limoncello nascosta in frigo,
o la tridimensionalità di una storia scadente in cambio di un pezzo da 10.

Poco o niente,
a parte l'informazione del non averla.

Poco o niente,
se non il brivido freddo su un vinile rigato,
e l'ultima cicca buona, soffocata nel portacenere.

Niente, se non la voglia di far niente.

Se non una cultura imparata seduto sul cesso,
a parte il disgusto e il senso d'inadeguatezza,
e la tua ombra chiusa in cella.
Poco o niente,
poco o niente,
se non l'odore di fango nell'aria,
o se pensi al lavoro.

Poco o niente, perché non c'è altro.
Poco o niente,
a parte tutto.

domenica 5 settembre 2010

Morte a pedali


All'angolo della strada
c'era un enorme arancino
a grandezza d'uomo
che sorvegliava l'ingresso di un bar.
Portava degli stivali da pescatore, dorati,
e aveva un largo sorriso stampato in faccia.

Una coppia si avvicinò al bar
e la ragazza disse
“Cristo, sembra vero!”
e il ragazzo disse
“Fermati lì, ché ti faccio una foto”.

Passai oltre il loro amore fotogenico
e mi diressi al chiosco
dall'altra parte della strada.
Ordinai una birra,
forse l'ottava quella sera,
e mi sedetti su una panchina
che dava sulle vetrine dei negozi.

Mi sembrava d'impazzire.
L'unico programma che avevo per la serata
era di farmi mettere sotto
da un'auto in corsa.
Ci provai anche,
ma ora sono qui a parlarne
quindi...

Su una di quelle vetrine c'era scritto
che le mutande erano in saldo.
La parola SALDO
risaltava al buio della notte.

Pensai di addormentarmi su quella panchina,
poi pensai di chiamare la mia ragazza
e dar fiato alla gola
ma il telefonò squillò a vuoto
e lasciai perdere.

Qualcuno spense le luci sulla strada
e allora finii la birra
e pensai davvero di fermarmi a dormire
su quella panchina,
tanto per assaggiare la vera poesia.
Ma una ragazza in bicicletta
mi passò davanti
e c'era qualcosa che non andava con l'olio della catena
perché faceva un rumore terribile,
strideva come unghie sul cielo della notte.

Allora mi alzai
gettai la bottiglia da qualche parte
e presi la strada per casa.

Poi,
chiusi le tapparelle della mia stanza
chiusi le tapparelle della cucina
e mi fermai ancora un po'
a rollarmi una sigaretta,
mentre Brahms,
la seconda della prima,
riempiva l'aria della tana.

C'era una blatta morta dietro il frigo.
L'indomani mi sarei dovuto dare da fare.

martedì 31 agosto 2010

Un po' d'aria tiepida


Adoro la notte.

L’odore del sangue mestruale
che affoga nella pozza d’acqua
di un sordido cesso
di una squallida stamberga
grassa e arricchita
mentre aspetto
di farmi schizzare
il piscio
fuori dal cazzo
e fuori,
FUORI
un nuovo
ritrovato amore
sboccia alla luna,
e fiori di loto si spandono al cielo
riempiendo l’aria di desiderio
e tutto a un tratto
ce ne stiamo soli,
io e te,
a guardare
un ubriaco reggersi la testa fra le gambe,
miscelando
whiskey di quart’ordine a coca di marca,
e un altro ancora barcolla
chiedendo del suo futuro
e io non ho risposte
e tu mi chiedi da fumare
e io ti restituisco il fuoco
di cui vedo fatte le nuvole
ogniqualvolta mi capita di volare
e non c’è male davvero,
no,
non c’è male
per niente.

C’è la luna piena stasera
e il vento stride tra le foglie
di alberi sopravvissuti al fuoco
e la buona notizia è questa,
una
e una soltanto:
ce ne staremo da soli
a sopportare le nostre gastriti brucianti
stretti assieme
mentre le pale del ventilatore
s’affaticano
per regalarci un po’ d’aria tiepida
da farci bastare
fino a domani.

mercoledì 25 agosto 2010

Spente le luci


Spente le luci
sul campo di calcio,
di superstiti
- a quanto pare -,
non ce ne sono.
Mi guardo le dita della mano
e il pollice
e il mignolo
sono pesti di sangue.
Rappreso, sotto le unghie,
tenta di venir fuori
ma le barriere organiche
sono ben progettate.
Il DISSENSO,
nel mio caso,
è sotto controllo.

Bè,
tutto questo capita
nell’era del “remake”,
e parlo di
musica,
letteratura,
cinema,
ma soprattutto,
di poesia.
Anche questa è stata già scritta
ma almeno non tenta di usare
una vita migliore
per giustificarne
una
pessima.
QUELLO,
quello è uno scrittore che mente.
Stanne lontano.

E mentre tento
di prendere in mano il volante
per dimostrare che,
in fondo,
sono uno di cui ci si può fidare,
esattamente in quel preciso
istante
di lucida
ben accetta
serena
e tracotante
COMPRENSIONE
che la mia donna
mi fa capire
che è LEI,
nonostante il buio e le sbronze,
ad avere
il dovere
di riportare
i nostri culi
sani e salvi
a casa.

lunedì 16 agosto 2010

Ode alle parole


Scrivere è prendere in prestito
per una notte
le fiamme dell'inferno
per forgiare parole
che mai ti apparterranno.

Puttane insensibili,
le parole.

Ti stregano con gli occhi,
ti fanno sentire vivo,
ti mostrano un po' di carne
lasciandosi desiderare,
bevono il tuo vino,
fumano il tuo tabacco,
poi lentamente si spogliano
e ti stendono a letto,
ti strappano i vestiti di dosso
e pian piano
ti lasciano entrare.

Scivoli dentro di loro
come un serpente affamato,
tendendo la lingua per assaporare
ogni centimetro d'estasi,
ti abbeveri del loro sudore,
ti aggrappi ai loro sospiri,
le tieni a mente,
le fai tue,
e allora senti una mano carezzarti il cuore,
e andare ancora oltre,
oltre il cuore, in profondità,
senti una mano afferrarti l'anima
e portartela via
mentre ti sembra di toccare il cielo
con la punta del tuo cazzo
dritto e ispirato.

Poi ti si addormentano accanto,
le parole.

Puoi sentire il loro tiepido respiro
sfiorarti delicatamente il collo,
e allora anche tu chiudi gli occhi,
ti lasci andare,
annegando nella beatitudine,
sicuro che ancora
farai visita al paradiso,
ché, in fondo,
un pezzo spetta a tutti,
anche a te.

Ma il loro posto
non è accanto a te,
né accanto nessun altro.

Saltano di letto in letto,
le parole,
di bocca in bocca,
di mano in mano,
di poeta in poeta,
di nullità in nullità,
nei secoli dei secoli.

Sono le puttane
della GRANDE letteratura,
le parole.

Cavalcano con Omero,
con Virgilio,
con Dante,
senza distinzione;
succhiano l'uccello
di Petrarca,
di Catullo,
di Ovidio,
si fanno sbattere
dai romantici e dai classici,
da Shakespeare e da Baudelaire,
le parole,
scopano con Hemingway e Dostoevskij
la parole,
con Pasolini e con Kafka,
con Fante e Fitzgerald,
Kerouac e Ginsberg,
Carver e Bukowski,
a altri ancora,
e ancora,
e ancora,
e ancora.

Troie poetiche,
le parole.

Battono sui versi
dei forti e dei deboli,
dei coraggiosi e dei vigliacchi,
dei geni e dei mezzi illuminati,
degli onesti e dei furbi,
tra le righe di ognuno di loro,
tra gli spazi bianchi delle loro pagine
le parole dominano
e tendono agguati,
aspettano il prossimo passo falso
nascoste
nel bianco degli schermi
le parole
e poi,
quando ti sembra di possederle
e di stringerle in pugno
riapri la mano
e nient'altro resta di loro
che un'atroce piaga fumante.

Perciò
adesso
farò ballare un po' le dita sui tasti
per dirvi soltanto questo,
puttane senza cuore:
Fottetevi!
E fatelo alla grande!

Non sarò in casa
quando tornerete a trovarmi.

martedì 3 agosto 2010

Il disagio della solitudine


Incontro questo artista
che fa arte maneggiando filmati.

“Voglio farti vedere il mio ultimo lavoro”, mi fa.
Annuisco, in segno di resa.

Lui fa scivolare un CD dentro un computer
che comincia a gorgogliare e a tremare tutto,
il che, penso, non è proprio un buon inizio.
Poi sullo schermo appare un finestra
e delle immagini cominciano a scorrerci dentro.

Si vede una donna, sola, seduta a un tavolo.
Non fa nulla in particolare, fissa il vuoto,
accendendosi una sigaretta dopo l'altra.
Non c'è nessuno nella stanza, a parte lei
e il suo piccolo corpo chino
inghiottiti da una strana luce rossa.
Sul tavolo ci sono una bottiglia e un bicchiere
che la donna riempie e scola,
riempie e scola,
riempie e scola...

“Quello non è mica vino vero”, mi fa l'artista,
“serve solo a dare l'idea”, dice.
Annuisco ancora, in segno di resa.

La scena va avanti così
con questa donna che fuma e beve senza sosta
per 10 interminabili minuti sprecati.
E poi finisce, così com'era cominciato.
Nessuno slancio,
nessun picco,
nessuna variazione appena percettibile.

“Allora?”, mi chiese affondandomi gli occhi addosso.
“Quale sarebbe l'idea che dovrebbe dare?”, gli faccio.
“Mi sembravi uno più sveglio”, dice.
Annuisco di nuovo, poi continua:
“E' chiaro come il sole, no?
Rappresenta il
DISAGIO DELLA SOLITUDINE”.

“Il disagio della solitudine...”, mormoro.
“Ma il vino non era mica vero,eh.”

“Il DISAGIO DELLA SOLITUDINE”,
dico accendendomi una cicca.
“Lo stesso che tintinna ogni giorno
nelle buste della mia spazzatura.”

mercoledì 28 luglio 2010

Post it


C'è solo un problema con le poesie:
sembrano brevi.
Cosicché tutti
pensano che sia facile
metter su
una parola dietro l'altra,
regalandoci
inferni di merda
di cui avremmo
volentieri
fatto a meno.

La prossima volta,
pensaci.

martedì 20 luglio 2010

Dal 1859


Svegliarmi non mi è mai interessato,
eppure capita ogni giorno
e non posso farci nulla.
Mi costringo ad alzarmi da letto
e andare in cucina a preparare un caffè,
fingendo di vivere su un foglio bianco
tutto da scrivere.

Vado al cesso
sperando di restituirgli quel che merita.
Mi siedo,come tutti,
e aspetto.

Come
chi aspetta che la sveglia non suoni,
chi aspetta di andare a morire sul lavoro,
chi aspetta di accompagnare i figli a scuola,
chi di leggere il giornale,
chi aspetta la colazione,
chi la promozione,
chi una buona occasione.

Mi siedo e aspetto,
come
chi aspetta una telefonata,
chi il matrimonio,
chi il divorzio,
chi aspetta un posto in ospedale,
chi il suo piano in ascensore.

Aspetto
come
chi aspetta la prossima offerta,
chi la prossima canzone,
chi la rivoluzione.

Ogni giorno mi siedo e aspetto,
come
chi aspetta di nascere,
e chi, finalmente,
di morire.

Svegliarmi non mi è mai interessato,
eppure capita ogni giorno
e non posso farci nulla.
Mi costringo ad alzarmi da letto,
a andare in cucina a prepararmi un caffè.

Vado al cesso,
sperando di restituirgli quel che merita.
Poi mi siedo
e, come tutti,
aspetto.

mercoledì 14 luglio 2010

Muco e Sperma


Scavalcammo il cancello
di Pietro
per pisciarci dentro
e
andammo via
senza salutare.

Piegammo le pareti
del tempo
per avere più spazio
e
godemmo sfiniti
senza pagare.

Ripulimmo le sindoni
delle madri
dal muco e dal seme,
facendoci avanti
sorridenti e fieri.

Sorridenti e fieri
risalimmo i fiumi
dei raccomandati
e dei corrotti
e
morimmo in bocca all'orso.

Morimmo
sorridenti e fieri.

Sorridenti e fieri
morimmo.

martedì 29 giugno 2010

Zanzare da compagnia


Mi sono messo comodo, stasera o signore,
senza chiederti il permesso.

Accendo una sigaretta
e mi godo il silenzio,
mi godo il vento e la birra,
mi godo il buio del mondo,
mi godo il riposo degli uccelli
e degli uomini
o signore,
senza chiederti il permesso.

Dovrei trovare la forza e alzarmi da letto,
preparare un caffè,
dimenticare il bruciore al culo e,
MAGARI,
andare al cesso a cacare.

Dovrei lavarmi le mani,
ricordare di buttare via l'immondizia,
comprare del cibo,
mantenermi in vita,
darmi da fare
e lavorare sodo.

Dovrei risparmiare quanto basta
per stringere la mano
di mia moglie
e aiutarla a spingere fuori
il nostro amore viscido
e sporco di sangue,
evitando di vomitare.

Dovrei svegliarmi presto
e provare a radermi
senza tagliarmi;
badare d'aver preso le chiavi,
le bollette,
la lista della spesa,
le ricette del dottore,
dire in fretta “Ti amo”
e poi
mettere in moto
e accompagnare il ragazzo
al suo primo giorno di scuola.

Anno dopo anno
dovrei fingermi orgoglioso
del suo ottimo rendimento
mentre la pubblica istruzione
gli spappola il cervello,
e dopo,
molto dopo
augurargli di finire meglio del padre
e far finta
che la torta sia stata di mio gradimento
nonostante la candelina
N.18
si sia sciolta proprio sulla fetta
che toccava a me.

Dovrei affrettarmi
e andare a votare,
guardarmi meno allo specchio
e forse
tenere la barba,
perché il grigio
mi fa più saggio.

Dovrei tentare di fare l'amore,
non farmi seppellire da un orgasmo,
tenere d'occhio i risparmi
e non viaggiare troppo:
mai sarebbe meglio.

Ancora,
dovrei smetterla
di piangere ai funerali dei vecchi,
smetterla di fumare e di bere,
smetterla col troppo sale
e smetterla anche con l'amore.

Dovrei smetterla con
l'ostinazione dei vivi
e lasciarmi finalmente andare,
annegare placidamente nel letto
mentre indovino
la risposta esatta
al quiz in TV.

La mia personale scalata al milione.

Dovrei fare tutto questo
ma stasera
mi sono messo comodo, o signore,
senza chiederti il permesso.

Aspetto le parole.

Ci sono il vento e le zanzare
a tenermi compagnia.
E anche se le parole
non arriveranno,
poco importa.
Questa sedia
sembra tanto
più comoda.

giovedì 17 giugno 2010

Una buona poesia


Una cattiva poesia
non dorme nel tuo letto,
non ti asciuga il sudore dalle spalle
col respiro
dopo una notte umida
prestata alle fiamme.

Una cattiva poesia
non ti scava negli occhi,
non geme cavalcandoti l'anima,
non ti allunga un braccio sul collo
per proteggerti
dall'inferno.

Una cattiva poesia
non è il leone che ti danza sullo stomaco,
non è la tigre che ti artiglia le spalle,
non ha l'odore selvatico
della vita
tra i capelli.

Una cattiva poesia
non ti offre da bere,
non ti paga da mangiare,
non ti riporta a casa sano e salvo
e poi ti dice
“TI AMO”.

Una cattiva poesia
non da soldi in prestito
e parla la lingua degli imperi,
ascolta cattiva musica
e spera sempre che tu abbia
un buon lavoro.

Una cattiva poesia
non ha il sorriso dell'eternità dorata tra i denti,
non ha mai letto Kerouac
né mai letto Hemingway,
e non alleggerisce il carico di sconfitte
che porti sulle spalle.

Una cattiva poesia
non aspetta che sia tu il primo a parlare,
se ne intende di misure
e preferisce le rime alle parole,
una cattiva poesia
da tutto per scontato.

Una cattiva poesia
ha sempre fretta di andare,
si spegne con lo schermo del computer,
scivola via con la merda nel cesso,
una cattiva poesia
secca come un preservativo al sole.

Una cattiva poesia
è sulla bocca di tutti,
è una puttana pesta incatenata a un letto,
è un'inserzione sporca sul giornale della domenica,
è il premio della critica
sullo scaffale delle offerte.

Una cattiva poesia
non ti asciuga la gola,
non ti secca la lingua,
non ti rende povero,
una cattiva poesia
non ti buca il fegato.

Una cattiva poesia
non è un incubo,
non è una corda che trema sul vuoto,
è una rassicurazione,
una cattiva poesia
è un conto in banca.

Una buona poesia
è un cuscino di pietre
su un letto di spilli,
una buona poesia
non sfiora l'anima,
colpisce a morte e basta.

Una cattiva poesia
non è una buona poesia.

Una cattiva poesia
è roba da poeti.

mercoledì 26 maggio 2010

Birra e uova a sufficienza fino alle prossime elezioni


Pazienta.
Finisci prima il vino.
Possibile che tu abbia
già svuotato due bottiglie?
Sii ragionevole,
pazienta.
C'è ancora una sigaretta
che ti brucia tra le dita.
Possibile che tu abbia
già finito tutto il tabacco?
La musica sta ancora suonando
e dopo quella
ti resta ben poco.
Perché non ti decidi a pazientare?
Hai fretta di sapere
come va a finire il film
anche se c'è ancora la pubblicità?
Ma la pubblicità non finirà mai.

Quindi ti conviene pazientare
e dare sfogo al culo
più forte che puoi.

Pazienta.
Le motivazioni sono come le parole,
non le trovi già scritte e pronte all'uso.
Questo lo capisci?
Annusati ancora un po' le dita
e fatti trovare pronto
per il prossimo notiziario.
Ti conviene pazientare,
perché saper grattar bene
una striscia di polvere argentata
non fa di te un vincitore.
Anche questo lo capisci,
non è vero?
Quindi pazienta.
Ci sono birre e uova
a sufficienza in frigo
fino alle prossime elezioni.
Non ti basta?
Non avere fretta
perché potresti finire
a scopare una donna
che sa quanto fai schifo
e non manca mai di dirtelo
e per questo ci farai un figlio
e alla fine ti sposerà.
Pazienta.
Pazienta.
Pazienta.
Sii paziente.

Perché un giorno
ti ritroverai a elemosinare pompini
al tuo capo ufficio,
e quando verranno a chiedertelo
dirai che lo facevi
perché anche i figli dei lavoratori
hanno diritto a sfamarsi.
Perciò mettiti comodo
e aspetta,
perché anche la solitudine,
come tutte le cose preziose,
ha un costo,
e potresti non permettertela più.

Allora, amico mio,
allenati a tracciare X sulla sabbia,
fai la punta alle matite
e scalda il tè freddo.
Fatti regalare un appartamento,
finisci il vino,
fuma la sigaretta,
scalda la cena,
scopa tua moglie,
porta fuori il cane,
dì sogni d'oro a tuo figlio,
aspetta il notiziario
dopo la pubblicità,
e masturbati di nascosto
davanti la TV alle 3 del mattino.
In fondo non c'è fretta,
non c'è mai stata fretta.

Pazienta.
Pazienta.
Pazienta.
Per la Rivoluzione
c'è sempre tempo.

martedì 11 maggio 2010

Hard Discount


Dietro l'immondezzaio
fuori casa
c'è molta più Vita
di quanto ne veda ogni giorno
trascinarsi e arrancare
stanca e demotivata
sulle strade di questa città.

Penso alla signora Vita
e assomiglia alla vecchia barbona
che si piscia addosso
mentre si piega sulla schiena di gesso,
e la merda le scivola via dal culo
improvvisando guizzi briosi,
puntellando note fuggevoli,
glissando come le pare
sul terzo movimento per violino di Brahms.

Penso alla Vita,
e dietro di lei
ecco il vecchio pazzo
cazzo al vento
che le graffia i fianchi
lasciandola sanguinare,
prima di strapparle via le mutande
e infilarle il suo pezzo di carne molla
dritto
in
culo.

Se c'è da pensare alla Vita
e sono da solo
in una casa che puzza d'uovo marcio,
e sento riparlare
di statistiche cancerogene
o di nuovi patti d'alleanza Italo-Russi,
non posso non dedicare una parola
alla madre zingara
che tira su dai capelli
il suo piccolo monello
dall'immondezzaio.

“Trovato nulla oggi?”
“Trovato nulla oggi”,
e il violoncello stride su strade di bronzo,
il frigo è vuoto,
e quelli in TV non smettono mai di parlare.

Dico semplicemente:
cosa cazzo siamo diventati in questi vent'anni?
Così telegenici
che il solo guardarci allo specchio
ci irrita gli occhi.

E allora è arrivato il mio turno
di aspettare il turno
di pagare un boccia
che mi costa venti minuti di Vita
e 80 cents.

“Va bene se mi fai credito?”

E un polacco bianchiccio si fa avanti
senza pensarci troppo,
per saldare il debito prima di noi altri
che attendiamo di farci strigliare ben bene dal PIL
e di uscire con uno scontrino di riconoscimento
che ci faccia sentire onesti,
proprio come la gente onesta
di questo
Onesto
Paese
Unito.

Ma il catanese prima di me tende un braccio
e urla “CAZZO FAI??”
e il polacco si fa indietro,
dietro il catanese,
dietro di me,
gli africani,
i cingalesi,
gli zingari,
gli ubriaconi,
gli italiani perduti,
e c'è poco o nulla di vitale
in quegli occhi consumati e stanchi.

Scampato al conto
e alla storpia di mestiere
che accumula pietà all'uscita
ci sarebbe da pensare alla Vita,
alla signora Vita
svenuta
culo all'aria
dietro l'immondezzaio fuori casa.
Stappo la prima birra,
svolto l'angolo
ed è ancora lì
faccia a terra.
Sanguina dal culo
e un gatto
passando
le striscia la coda sulle cosce.

Allora ci sarebbe da pensare a lei
in quel momento,
così stappo la seconda bottiglia,
tiro un calcio al gatto,
e mi chino a raccoglierle il viso tra le mani.

“Come va signora?”

“Dopo il vecchio pazzo
ci ha pensato la polizia.
E dopo ci ha pensato
il mio avvocato.
E dopo il mio medico.
E alla fine è toccato al mio confessore.”

Restava ancora una birra nella busta,
una birra
e un altro po' di Vita da consumare.

“Stia tranquilla signora”, dissi.
“Ci penso io a lei adesso.”

Finito con la Vita
tornai a friggere uova
proprio come il giorno prima,
mentre un gatto col culo rosso
e una zampa malconcia
s'arrampicava su un muro di pietra umida,
leccandosi le palle
e mostrando le unghie alla luna.