GIANNI CUSUMANO - AUTORE APPESO -

mercoledì 26 maggio 2010

Birra e uova a sufficienza fino alle prossime elezioni


Pazienta.
Finisci prima il vino.
Possibile che tu abbia
già svuotato due bottiglie?
Sii ragionevole,
pazienta.
C'è ancora una sigaretta
che ti brucia tra le dita.
Possibile che tu abbia
già finito tutto il tabacco?
La musica sta ancora suonando
e dopo quella
ti resta ben poco.
Perché non ti decidi a pazientare?
Hai fretta di sapere
come va a finire il film
anche se c'è ancora la pubblicità?
Ma la pubblicità non finirà mai.

Quindi ti conviene pazientare
e dare sfogo al culo
più forte che puoi.

Pazienta.
Le motivazioni sono come le parole,
non le trovi già scritte e pronte all'uso.
Questo lo capisci?
Annusati ancora un po' le dita
e fatti trovare pronto
per il prossimo notiziario.
Ti conviene pazientare,
perché saper grattar bene
una striscia di polvere argentata
non fa di te un vincitore.
Anche questo lo capisci,
non è vero?
Quindi pazienta.
Ci sono birre e uova
a sufficienza in frigo
fino alle prossime elezioni.
Non ti basta?
Non avere fretta
perché potresti finire
a scopare una donna
che sa quanto fai schifo
e non manca mai di dirtelo
e per questo ci farai un figlio
e alla fine ti sposerà.
Pazienta.
Pazienta.
Pazienta.
Sii paziente.

Perché un giorno
ti ritroverai a elemosinare pompini
al tuo capo ufficio,
e quando verranno a chiedertelo
dirai che lo facevi
perché anche i figli dei lavoratori
hanno diritto a sfamarsi.
Perciò mettiti comodo
e aspetta,
perché anche la solitudine,
come tutte le cose preziose,
ha un costo,
e potresti non permettertela più.

Allora, amico mio,
allenati a tracciare X sulla sabbia,
fai la punta alle matite
e scalda il tè freddo.
Fatti regalare un appartamento,
finisci il vino,
fuma la sigaretta,
scalda la cena,
scopa tua moglie,
porta fuori il cane,
dì sogni d'oro a tuo figlio,
aspetta il notiziario
dopo la pubblicità,
e masturbati di nascosto
davanti la TV alle 3 del mattino.
In fondo non c'è fretta,
non c'è mai stata fretta.

Pazienta.
Pazienta.
Pazienta.
Per la Rivoluzione
c'è sempre tempo.

martedì 11 maggio 2010

Hard Discount


Dietro l'immondezzaio
fuori casa
c'è molta più Vita
di quanto ne veda ogni giorno
trascinarsi e arrancare
stanca e demotivata
sulle strade di questa città.

Penso alla signora Vita
e assomiglia alla vecchia barbona
che si piscia addosso
mentre si piega sulla schiena di gesso,
e la merda le scivola via dal culo
improvvisando guizzi briosi,
puntellando note fuggevoli,
glissando come le pare
sul terzo movimento per violino di Brahms.

Penso alla Vita,
e dietro di lei
ecco il vecchio pazzo
cazzo al vento
che le graffia i fianchi
lasciandola sanguinare,
prima di strapparle via le mutande
e infilarle il suo pezzo di carne molla
dritto
in
culo.

Se c'è da pensare alla Vita
e sono da solo
in una casa che puzza d'uovo marcio,
e sento riparlare
di statistiche cancerogene
o di nuovi patti d'alleanza Italo-Russi,
non posso non dedicare una parola
alla madre zingara
che tira su dai capelli
il suo piccolo monello
dall'immondezzaio.

“Trovato nulla oggi?”
“Trovato nulla oggi”,
e il violoncello stride su strade di bronzo,
il frigo è vuoto,
e quelli in TV non smettono mai di parlare.

Dico semplicemente:
cosa cazzo siamo diventati in questi vent'anni?
Così telegenici
che il solo guardarci allo specchio
ci irrita gli occhi.

E allora è arrivato il mio turno
di aspettare il turno
di pagare un boccia
che mi costa venti minuti di Vita
e 80 cents.

“Va bene se mi fai credito?”

E un polacco bianchiccio si fa avanti
senza pensarci troppo,
per saldare il debito prima di noi altri
che attendiamo di farci strigliare ben bene dal PIL
e di uscire con uno scontrino di riconoscimento
che ci faccia sentire onesti,
proprio come la gente onesta
di questo
Onesto
Paese
Unito.

Ma il catanese prima di me tende un braccio
e urla “CAZZO FAI??”
e il polacco si fa indietro,
dietro il catanese,
dietro di me,
gli africani,
i cingalesi,
gli zingari,
gli ubriaconi,
gli italiani perduti,
e c'è poco o nulla di vitale
in quegli occhi consumati e stanchi.

Scampato al conto
e alla storpia di mestiere
che accumula pietà all'uscita
ci sarebbe da pensare alla Vita,
alla signora Vita
svenuta
culo all'aria
dietro l'immondezzaio fuori casa.
Stappo la prima birra,
svolto l'angolo
ed è ancora lì
faccia a terra.
Sanguina dal culo
e un gatto
passando
le striscia la coda sulle cosce.

Allora ci sarebbe da pensare a lei
in quel momento,
così stappo la seconda bottiglia,
tiro un calcio al gatto,
e mi chino a raccoglierle il viso tra le mani.

“Come va signora?”

“Dopo il vecchio pazzo
ci ha pensato la polizia.
E dopo ci ha pensato
il mio avvocato.
E dopo il mio medico.
E alla fine è toccato al mio confessore.”

Restava ancora una birra nella busta,
una birra
e un altro po' di Vita da consumare.

“Stia tranquilla signora”, dissi.
“Ci penso io a lei adesso.”

Finito con la Vita
tornai a friggere uova
proprio come il giorno prima,
mentre un gatto col culo rosso
e una zampa malconcia
s'arrampicava su un muro di pietra umida,
leccandosi le palle
e mostrando le unghie alla luna.

venerdì 7 maggio 2010

Costo opportunità


La luna s'ingrassava del cielo
quando finii la birra.

Quando
dall'altra parte del continente,
Amoddio asfaltava nuove strade maledette
per nostro Signore,
e io uscii sperando nell'ultimo bar aperto,
passando accanto la carcassa di un gatto stecchito,
respirando lo zolfo dei marciapiedi,
evitando puttane e bracconieri,
contando gli spiccioli in tasca,
maledicendomi prima del tempo.

Quando il sangue impazzito di un finocchio pugliese
cominciava a ribollirmi di speranza le vene,
e respiravo limone dalla bocca di una bottiglia gelata
e forse
una nuova storia era tutta da scrivere,
la luna s'ingrassava del cielo.

Finii la birra,
quando in centinaia dopo Cristo
erano morti e risorti
e avevano venduti i loro libri,
i loro dischi,
i loro quadri,
lasciandoci ai nostri costi opportunità.

Quando Amoddio andò a pisciare
dall'altra parte del continente,
prestandomi alle braccia grasse
di una vecchia vergine bionda e la sua ugola dorata,
avvolto di luce fredda fin dentro il buco del culo,
e, forse,
un'altra storia del cazzo
era davvero tutta da scrivere,
la luna s'ingrassava del cielo
e io finii la birra.

martedì 27 aprile 2010

Polaroid '96


Se non eri abbastanza furbo
per spacciare
potevi sempre scroccare da bere
a un grasso rivoluzionario fallito,
con pochi soldi,
pochi amici,
ma con una casa grande abbastanza
per ripararti dai fuochi esplosivi
di un sabato sera locrese.

A sedici anni volevamo perdere.
Perdere quel tanto che bastava
da far credere agli altri
che avevi sempre avuto ragione.

C'era ben poco da fare in un posto come Locri.

Diceva di chiamarsi Carmelo,
e aveva gli occhi più tondi e gialli
di tutta la provincia.
Occhi che soffocavano nel whisky
ogni pomeriggio prima della messa delle 5.
Occhi fusi nel piombo,
che avevano perso tempo
-TROPPO TEMPO-
a dar retta ai compagni sbagliati.
Occhi con una ex moglie brasiliana strafatta di coca
che attendeva una telefonata dall'altra parte del filo,
mentre altri occhi
occhi amici,
-gli occhi di Renato:
anche lui pippato da far schifo,
un padre ucciso
e una madre che allattava fratelli e sorelle suoi per metà-,

se la sbattevano su un divano cremisi.
Il divano cremisi di Carmelo.

Che la lotta continuasse o no
non era un problema per noi,
non era un problema per Renato,
e non era di certo un problema per l'ex moglie di Carmelo
stesa culo all'aria
sul divano del marito.

Fintanto che c'era abbastanza pasta
e abbastanza sugo,
fintanto che c'era abbastanza vino
e abbastanza erba
su, nella mensola in cucina,
non era nemmeno più un problema di Carmelo
che la lotta continuasse o no.
E allora una sera ci presentammo davanti casa sua
fatti fino all'osso
e con poca voglia d'avere problemi.
Lanciammo i giubbotti su un divano,
un divano cremisi misto sperma,
e salutammo.
C'era anche Renato.
Tirava su col naso.
Lo faceva da anni.

“Com'è Renato?”
“E... com'è?!”, fece lui.

C'era una tavola imbandita
che faceva l'occhiolino dal soggiorno.
Una tavola tradita,
anche se ancora non era chiaro come.
Ci facemmo avanti,
prendemmo posto
e lasciammo che le cose ci passassero addosso.

Odore di vapore,
odore di grano
nell'aria.
Odore di gas e nicotina,
odore di aglio fritto e marijuana,
nell'aria.

E poi Carmelo
sbucò dalla cucina come un verme dal buco
e si avvicinò al tavolo
con la sua pentola più grande che bruciava,
bruciava,
bruciava la colla di pasta che avremmo avuto per cena.

Ci lanciammo sui piatti
senza dire preghiere
e qualcuno attaccò a parlare di qualcosa,
qualcosa che stava alla base della lotta proletaria.
Poi starnutii
per via del pepe sugli spaghetti,
e Carmelo s'interruppe per bere del whisky,
mentre altri versavano altro vino.
Poi Carmelo disse:
“Sapete cos'è Dio?”
“Cosa?”

“L'apostrofo tra la D e la I.”

Era bella.
Una di quelle cose che vorresti aver pensato tu, prima.
Stavamo bene.
Sì, si stava bene.
E anche Renato sembrava star bene
nonostante il rossore al naso.
Ridemmo e vuotammo i bicchieri
e Carmelo ci offrì del whisky,
-del suo whisky-.
E non eravamo tipi da tirarci indietro,
e lì dentro lo sapevano
perché adesso qualcuno s'era messo a rollare dell'erba,
-la nostra erba-,
e allora galleggiavamo,
galleggiavamo tutti,
come morti sull'acqua.

Così squillo il telefono
e Carmelo s'alzò per rispondere,
mentre noi si andava avanti
a bere e a ingoiare.
Poi tornò in cucina,
portandosi dietro un vecchio ricevitore di plastica,
di quelli moderni senza rotella.

“C'è qui la mia ex moglie al telefono”.

Noi altri sedicenni accennammo un sorriso.
Renato impallidì e basta.
Che cazzo ne sapevamo noi?

“Voglio che la conosciate, che le parliate”.

“Forse un'altra volta, Carmelo. Forse non è il caso adesso”.

“VOGLIO FARVI CONOSCERE MIA MOGLIE!”

Pregai di non essere il primo.
La pasta era finita
e non avevamo recitato nessuna preghiera.
Mandai giù un altro sorso di whisky.
“Fatti notare il meno possibile” è la regola,
e di solito funziona.
Ma non quando il lampadario della cucina
non è dalla tua parte,
lasciandoti senza un centimetro di buio
dove andare a nasconderti,
con un ex terrorista cocainomane
completamente ubriaco
che ti agita contro la cornetta del telefono,
minacciandoti di sbattertela in faccia
se adesso,
proprio ADESSO,
non ti decidi a presentarti
alla sua ex moglie brasiliana
che aspetta dall'altra parte del filo.

Raul disse “Pronto?” per primo,
e la donna dall'altra parte c'era davvero,
perché non era uno scherzo
e se lo era
era di quelli che vengono bene.
Perché quella donna disse:
“Tesoro! Ciao. Sono Estella. Come ti chiami?”

“Sono Raul. Piacere di conoscerti, Estella.”

“Senti che voce. Quanti anni hai?

L'imbarazzo di Raul disse:
“Sedici.”

“Cashpita! Sembri molto, molto più... g-r-a-n-d-e.”

Il cazzo duro di Raul rispose:
“G... Grazie”.

Andò avanti così ancora un po',
poi Carmelo disse “Basta. Basta!”
e toccò a me farmi avanti.
“Tu! Vieni a salutare mia moglie, qui...”

“Come va?”

“Dimmi come sei fatto?”

“Cosa?”

“Dimmi come sei fatto.”

“Non bene direi...”

“Dille che è una puttana!”

“Che cazzo dici Carmelo?”

“DEVI DIRLE CHE E' UNA SCHIFOSA PUTTANA!”

Non feci in tempo a dire nulla
perché la grossa mano della rivoluzione proletaria
mi strappò via il ricevitore
scagliandolo contro la carta da parati ingiallita
del soggiorno.
Poi
gli occhi della rivoluzione
si fissarono a lungo
a lungo,
a lungo,
molto più a lungo di quanto stenti a ricordare,
sulle pupille a spillo del tradimento.
Le pupille di Renato.

Raul mi versò da bere
e io guardai Raul versarmi da bere
mentre il resto,
tutto il resto,
diventava l'ennesima istantanea venuta male
di un altro sabato sera locrese.

giovedì 22 aprile 2010

Tonnellate di merda


Tonnellate di merda.

Tonnellate di merda sui cieli puliti di primavera,
voltato l'angolo per casa,
sulla faccia sporca di uno zingaro affamato
che sbuca fuori dall'immondizia.

Tonnellate di merda
al parco la domenica,
quando è troppo presto per bere
e troppo tardi per non farlo.

Tonnellate su tonnellate di merda
mentre assorbi gli ultimi avanzi di sole
col culo sulla panchina più scomoda,
e due uomini venduti a Cristo
te la fanno pagare
stendendoti la loro vecchia ombra
dritta in faccia.

Tonnellate di merda
che ti scavano nelle orecchie
come pesci carnivori fatti di lettere,
stupide parole noiose,
scogli interrogativi,
e il tuo muso ci va a finire contro
e ti chiedi:
Perché mai?

“Hai bisogno di Cristo!”
“Non ho bisogno di Cristo.”
“Lascia la catechesi del demonio e rifugiati in Cristo!”
“Pago già l'affitto di un bilocale, fratello.”
“Getta alle fiamme quella bottiglia. Pensi che bere sia giusto?”
“Se alleggerisce la croce sulle spalle fratello, perché no?”

Tonnellate di merda
nell'attesa di pagare le bollette
seduto all'ufficio postale,
respirando saliva.

Tonnellate di merda
fino a farti affogare
nella speranza fallita
di un altro giorno solitario.
Tonnellate su tonnellate di merda
mentre due sconosciuti bussano alla porta
di quella che,
fino a ieri,
era casa tua
e adesso
è soltanto un altro buco stretto
di questa stretta città.

Tonnellate di merda
sulla tua bassa pressione,
mentre cadi svenuto sul letto sporco di sangue
e in cucina
una troia polacca e la sua donna
sbucciano cipolle e stappano vino.
Il tuo vino.

Tonnellate di merda
Tonnellate di merda
e il tuo week end
è bello che fottuto.

Tonnellate di merda,
merda fumante,
merda stantia che soffoca il tuo bagno,
che ti invade le narici
e che non è la tua.

Tonnellate di merda,
merda pesante,
merda viva e pulsante,
tonnellate di merda
ti piombano addosso dal cielo
come macigni stellari
schiacciandoti all'istante,
seppellendoti per sempre,
soltanto perché
non aspettavi nessuno
questo week end.

mercoledì 31 marzo 2010

Preparativi


Sbucci le tue patate,
scongeli le tue fette di vacca,
lavi i piatti sporchi.
Ti prepari.

Vai al bagno,
leggi poesie mentre cachi,
scarichi
assicurandoti di spazzolare via le strisce di merda dal cesso.
Ti prepari.

Torni in camera,
dai un'occhiata alla polvere sparsa sul pavimento,
pensi che dovresti dare una lavata a terra.
Sul tavolo, accanto al computer,
i resti di una notte solitaria
passata a scrivere follie
di cui “il mondo farà volentieri a meno”.

Vino,
tabacco,
odore di cenere,
le solite due lampade a basso consumo,
il solito cane isterico che abbaia da qualche parte
e un altro più grosso che risponde da chissà dove,
mentre fuori il mondo
si prepara a un altro mezzogiorno
tu ti prepari a vivere il tuo
a risparmio energetico.

Dai tempo alla campana di finire i suoi rintocchi,
alla carne ancora qualche minuto per scongelarsi,
all'odore di merda di andar via,
ai caffè di fare il loro dovere,
evitando di vomitare.

Ti prepari,
il mondo ti scivola addosso
il mondo va a rotoli,
“il mondo fa a meno di te”
ma non importa,
perché sei un tipo preparato.

lunedì 29 marzo 2010

Cartolina a mio padre

Papà,
dovrei vomitare.
Dovrei vomitarti addosso.
Vomitare sulla mamma,
su mia sorella.
Dovrei sporcarmi di vomito,
papà.

Dici che le cose non cambieranno,
papà,
che la gente se ne frega.
E, tanto vale,
fare come fanno tutti.

Papà,
dovrei vomitare.
Dovrei vomitarti addosso.
Vomitare sulla mamma,
su mia sorella.
Dovrei sporcarmi di vomito,
papà.

Perché le cose non cambieranno,
papà.
Perché la gente se ne frega.
E, tanto vale,
fare come fanno tutti.

Adesso,
tienimi stretta una mano in fronte,
papà.
Come quando ero piccolo
e c'era poco da capire.
Aiutami a vomitare,
papà.
Fammi vomitare.