GIANNI CUSUMANO - AUTORE APPESO -

sabato 13 febbraio 2010

Agata -Ieri-

Quello che Agata si è lasciata per le strade polverose di questa città: un uomo senza un piede che chiede l'elemosina accasciato davanti un rispettabile bar per famiglie; uno storpio che barcolla appoggiato a una stampella di plastica che fa la spola tra un marciapiede e l'altro facendo leva sulla orrenda malformazione al viso in cambio di pochi spiccioli merdosi; il cadavere di una settantenne che supplica la folla nascosta in un angolo tra Via Pacini e Via Etnea con al collo un foglio di cartone con su scritto qualcosa; io. Davvero siamo tutti devoti. Non c'è che dire. Ogni guerra religiosa fa le sue vittime. E questo pugno chiuso con due pollici che ho deciso di stamparmi qui, sulla mia scrivania digitale, mi spinge a dire tutta la verità. Da giorni cerco le parole adatte a descrivere quello che è, senza dubbio, tra i più intensi e sentiti deliri devozionali che la storia cristiana conosca. Ma bisogna partire dall'inizio. Come buona parte delle feste di commemorazione religiosa tutto comincia con uno stupro mancato. Questo proconsole romano, Quinziano, sbarcò sull'isola per insidiarsi come governatore nella città che già all'epoca era più simile alla sottile linea di confine che separa il bene dal male, il sacro dal profano, che a una comune città imperiale. Catania era più vicina a Sodoma che a Roma. Di notte, al bagliore tremulo dei fuochi che bruciavano le case assalite dai ladri, le strade ululavano di piacere. Cumuli di carne grassa e sudata avvinghiata in una stretta sporca di sangue e fango, uniti per restituire il giusto tributo di sperma e gemiti ad Afrodite e al buon Bacco. Messe orgiastiche e fiumi di vino. Schiavitù sodomizzata a ogni angolo. Potevi comprare una schiava mora per meno di una moneta di bronzo e fare di lei qualsiasi cosa, anche ucciderla. Anzi, alla fine, probabilmente sarebbe stata lei, ormai sfiancata, a implorarti di farlo. Violenza e paura. A quanto pare non si contano le puttane nere che ogni notte perdevano la vita dopo aver scopato ininterrottamente con più di dieci uomini, forse anche animali. Pessime implicazioni religiose che giustificavano stupri di massa collettivi. Ratti delle schiave. Una moria di vergini senza precedenti, ed era soltanto una città a provocarla. Di giorno, quando anche il sole sembrava non avesse per niente voglia di sorgere, le avide matrone patrizie lasciavano le loro ville tutte imbellettate per andare a contrattare sul prezzo di qualsiasi cosa al mercato. Non era raro che una volta in strada si imbattessero nel cadavere di quella che fino a ieri era stata la loro ancella di fiducia. Casta, pulita, profumata. Morta. Che spreco di denaro. Ma nel 250 dopo Cristo, a Catania, Cristo era ancora in ritardo sulla tabella di marcia. La città era stata conquistata in guerra da Roma, e Roma apparteneva di diritto all'Olimpo. Questo era chiaro. Ma un sottile, flebile sussurro di quel giudeo che si credeva dio in terra arrivò a insidiare lentamente l'orecchio di una giovane e inviolata figlia dell'impero. L'avevano chiamata Agata. Diversamente dal suo ispiratore spirituale, Agata non subì la colpa di essere cristiana in terra di Roma, o perlomeno, non direttamente. Il suo problema era di avere una maledetta bellezza colpevole. Tutto in lei ispirava colpevolezza, tradiva reato: il viso, gli occhi, il seno, le gambe. Non c'era di che salvarsi. E Quinziano il proconsole, vedendola camminare un giorno qualsiasi per una strada qualsiasi, non impiegò molto a vedere nello sguardo di quella vergine feconda il riflesso del piacere e l'opportunità del peccato. Perché Agata non aveva soltanto un bel culo e dei bei capelli, non era soltanto giovane – ancora una bambina – e pura, ma era anche ricca. Ricca di terre e di case. E il Romano questo lo sapeva. Allora, una notte schifosa e vibrante di peccato, diede ordine ai suoi sgherri più infimi di rapire Agata e consegnarla a lui, nuda e nel suo letto. Avrebbe fatto di lei una delle innumerevoli spose dimenticate e sfatte per i troppi parti e poi, un giorno non troppo lontano, avrebbe pisciato sulla terra umida di uno di quegli immensi campi che una volta le appartenevano, tranquillo come solo un padrone può fare. Ma ancora prima, Quinziano comprese che contro la volontà di una giovane vergine consacrata al giudeo non potevano nemmeno la forza e la barbarie dei suoi eserciti. Perché in effetti Agata arrivò su quel letto opulento, nuda, procace, candida. E davvero dentro la camera consolare l'aria sapeva d'incensi. Ma la chiave con cui il romano sperava di spalancare le porte di tali ricchezze non era fatta per quella serratura. Non finché ci sarebbe stata quella cintura d'argento a proteggerla. Dura e fredda come l'inconcepibile consapevolezza del fallimento. “Quel porco d'un giudeo!”. Le urla riecheggiarono sbattendo come schiaffi pesanti sulle pareti sporche di cera del palazzo. E veri schiaffi illuminarono il viso della vergine Agata nella penombra della stanza del peccato scampato. E poi lacrime, e ancora violenza, e poi sangue e urla, urla, urla che, scivolando fuori la finestra si perdevano, confondendosi con il gemito spaventoso della terribile bestia orgiastica della città coperta di tenebre. Quelli che seguirono furono giorni di prove. Prove di lealtà al giudeo. C'era una puttana che gestiva l'harem più grande e fumoso di tutta Catania, eterna devota alla dea della quale portava il nome: Afrodisia. Alle mura del suo bordello Quinziano consegnò la vergine che aveva osato rifiutare un membro dell'impero. La rieducazione al paganesimo in senso sessuale. Sporcarsi anima e corpo, lavarsi della purezza col peccato del piacere. Come biasimare, del resto? Trascorsero giorni e notti e mani, mani senza nome che strisciarono su ogni millimetro di quella pelle morbida e ormai sudicia; mani che assalivano il corpo di Agata come iene frenetiche in cerca di una chiave che a nessun altro sarebbe potuta appartenere, se non al giudeo. Danze. Girotondi di corpi sudati. Lingue mute e umide risalivano la schiena di Agata come il fremito gelido che assale il pazzo che sa di essere pazzo. Ma non ci fu verso. Quella chiave non saltò fuori. E neppure le ricchezze che custodiva. E allora, “Che l'impura venga tratta in arresto e condannata!”.
Allora altra violenza si aggiunse ad altro dolore. Bastarono un paio di tenaglie arroventate. Lo strappo dei seni lacerati e lo strazio in gola. Poi, il lento scorrere del sangue caldo su un corpo sempre più freddo. Rivoli di vapore rosso disegnavano l'addome contratto della colpevolezza. Se un proconsole romano non era in grado di fare sua una puttana qualsiasi dell'impero, tanto valeva la morte. Di lei. Ma i processi di Roma, per quello che ne sapevano i catanesi, non appartenevano a Catania. Come al proconsole invasore, riflesso distinto delle perversioni dentro cui molti in città si specchiavano, non apparteneva la città. Fu rivolta. Il gigantesco drago che si prendeva la rivincita su San Giorgio. Fu la disfatta del potente e la gloria del povero, della puttana, dello storpio, delle schiave more, dei malati, dei mercanti di oppio, degli ubriaconi, dei cristiani svuotati di spirito. E se quel proconsole romano, Quinziano, non avesse avuto anche allora intuito -quello, per intenderci, che spinge una mosca a volar via un attimo prima che una grossa mano la schiacci- non ci sarebbero state più serrature, sul pianeta, che la sua chiave imperiale avrebbe potuto ancora aprire.

Nessun commento:

Posta un commento