La fine di una passione
assomiglia pressappoco
a un uomo in mutande e maglietta
sdraiato sul divano
che piange
e tossisce
allo stesso tempo
aspettando un buon motivo
per alzarsi
e farsi una doccia.
La fine di una passione
assomiglia pressappoco
a un uomo in mutande e maglietta
sdraiato sul divano
che piange
e tossisce
allo stesso tempo
aspettando un buon motivo
per alzarsi
e farsi una doccia.
Il cuore della poetica in un tappo di plastica che imita il sughero
ed esce allo scoperto nudo come un verme
sbattuto in faccia all’afosa arroganza tutta italica
di una sera di mezza estate.
Il cuore della poetica
che si lascia galleggiare nell’aria umida
masticata da un ventilatore da quattro soldi
guardando fuori da una finestra di una casa non sua,
che nuota alla volta di vite tenute al sicuro
- al sicuro da tutto -
vite concluse anche per oggi dietro serrande di legno masticate dai tarli
e insinuate da blatte vacanziere
venute fuori per rendere omaggio alla luna del Sahara
- ovunque sia -
grasso satellite pallido
che si riflette dentro occhi scuri stipati in massa dentro navi pronte al naufragio,
occhi bagnati dal sangue che gridano “TERRA!” guardando 3 metri più in basso.
Cosa è successo?
Cosa è successo?
E passando all’ennesimo bicchiere opaco
che ti raccolgo
stringendoti in un pugno
e prima che sorga il sole
ti porterò via
giù
a marcire come il resto
in un’iperbole svogliata priva di senso
io
tu
e quel che resta di un fegato appassionato.
La città urla,
la città sanguina,
la città abbaia.
La città cinguetta motivetti indiani
acquattata nell’ombra,
la città aspetta.
Tu rincorri parole,
le parole ti sfuggono,
tu costruisci carceri sicure
ma questo non ti rassicura.
Tu hai un debito con l’uomo della birra,
ti sdebiti bevendolo a colazione
e a pranzo
e a cena,
tu sei un uomo con la merda fino al collo.
La città si chiede cosa succede,
rantola,
squittisce nei vicoli sparsi di luce,
si riflette negli occhi del vizio
di bimbi tirati a lucido
come sportelli di auto
extralusso.
Ti fermenta dentro,
la città,
ulula al tuo cuore
come un lupo aggrappato
alla notte.
La città prega e si fa benedire,
la città devota,
la città a credito,
la città trascinata dai capelli
che batte sui tasti di un marciapiede sordido
che tu chiami “ispirazione”.
La città.
Questa dannata città.
Possa Iddio passarci il resto dell’eternità.
Fossi un poeta
comincerei a fare i conti
con quello che ancora non marcisce
dentro al frigo,
piuttosto che dire la mia
sulla questione politica del momento.
Fossi un poeta
preferirei incollare gli occhi su un muro bianco
e immaginare il mondo a modo mio,
piuttosto che guardarlo annaspare
roteando
per le sponde dell’universo.
Fossi un poeta
farei in modo di trattenere la merda
dentro allo stomaco
quanto basta
per provare ancora qualcosa di vero
e rivelatore.
Fossi un poeta
baderei al mio bicchiere
come fosse il più prediletto dei figli
e farei in modo
di non fargli mancare mai nulla.
Mai.
Fossi un poeta
la smetterei una buona volta di atteggiarmi a poeta
e penserei invece
ad annusarmi la pelle delle dita
per capire che odore fa l’umanità
quando fallisce.
Fossi un poeta
troverei il tempo di lavare i calzini sporchi
e di strizzar la via la merda dalle mutande;
di gettar via le bottiglie andate
e lasciar cadere la fronte sulla mano,
in segno di resa.
E via via,
dimenticare.
Preparo il foglio
e la dimensione delle lettere.
Preparo un’altra sigaretta
e preparo il vino, nel bicchiere.
Preparo il mio senso della disciplina
e lo trattengo tra le dita,
sui polpastrelli
badando bene che non sfugga.
Poi sollevo il bicchiere
respirandone lo spirito
e non mi resta altro da fare
che chiudere gli occhi
e seguire questa piccola zanzara grigia e impertinente
che disegna cerchi purpurei nell’aria
e dice di chiamarsi
Brahms.
Dice di avere una verità in dono, Brahms.
“Per me?”
“Per te, stupido vigliacco ubriacone.”
Brahms si lancia in una piroetta
che disegna un cerchio perfetto
nell’indifferenza dell’universo.
Poi dice:
“L’ultimo poeta che il mondo abbia mai conosciuto
sfida la morte col sorriso
nel buio di una cella umida,
mangiando nient’altro che le unghie delle sue stesse mani
e mai rimpiangerà
l’attimo in cui non ebbe nulla da rendere al mercato degli uomini
in cambio di una busta di spesa
se non la sua stessa anima di cuoio”.
Allora riaprii gli occhi
e schiacciai l’ultima cicca
prima di addormentarmi.
Mentre tutto continua ad andare.
Raccolsi tabacco, cartine e un litro di parole
e salpammo prima dell’ultima alba di fuoco,
quando i violini glissavano su note minori
e cani sonnecchianti tendevano i collari
per pisciare e rendere l’anima
a una vecchia luna stanca e demotivata.
Legammo le carni all’albero maestro
e tagliammo le onde nere
risalendo le maree
proteggendoci
abbracciandoci
e respirando null’altro che l’odore dei nostri capelli,
mentre l’orizzonte si dissolveva
come amore all’alba,
si dissolveva alle nostre spalle
e tutte le cose rinascevano al buio,
nude e semplici,
così come erano sempre state,
così come noi eravamo.
E non c’era null’altro da sapere,
galleggiando ubriachi su quella pozza scura,
come cenere che annega nel vino,
se non che la gomma che riveste il mondo
quando brucia puzza e appesta l’aria,
e che gli uccelli d’acciaio non esistono
e se esistessero
non sgancerebbero bombe fluorescenti
giù dal culo.
Lasciammo andare gli spiriti al vento,
e danzammo,
e danzammo,
e cantammo perfino qualcosa, scambiandoci gli occhi,
ma solo nella nostra immaginazione,
trattenendo il respiro,
delicatamente
per ore,
per ore e ore
e solo allora, forse,
sorridemmo appagati.
Galleggiammo così per mesi,
per anni,
per secoli interi
senza nulla dirci,
senza nulla chiederci,
bastandoci e niente più.
DRITTI A NORD, CAPITANO!,
DRITTI A NORD
avanti verso l’azzurro,
dovunque sia
il colore non importa.
Ma non dir nulla, ti prego,
non dir nulla.
Non ora.
È ancora troppo presto.
Gli uccelli d’acciaio potrebbero davvero svegliarsi
e allora potremmo dover rendere l’anima alla luna
e io non sento ancora il bisogno di pisciare.
Così continua a guardare avanti,
sù, mio capitano!
Resisti e guarda avanti,
avanti,
avanti,
ché i violini continuano a trillare.
Non li senti?
Ora che hai avuto quello che hai preso
e che mastichi di nascosto
anche tu la tua parte;
ora che te lo sei fatto rizzare
pensando al visone
della donna che ami scopare;
ora che hai asciugato il tuo piccolo
flaccido
culo
e usato il filo interdentale;
ora che stai per ascoltare
il prossimo dibattito elettorale
e cambiare, di nuovo, canale;
ora che hai tirato su le coperte
e strofini i piedi per scaldarti
pregando dio per un sonno migliore;
ora che hai fatto tutto questo
e non hai di che lamentare;
ora che il gaudio del dì
e lì lì per arrivare
e l’alba rosea ti sta per carezzare;
ora,
soltanto ora
una cosa ancora
ti resta da fare:
FOTTITI,
e
VAFFANCULO!